Da tutto ciò, novecento anni più tardi gli astronomi erano stati in grado di calcolare la violenza dell'esplosione. La materia sparata via dal centro dell'esplosione aveva viaggiato verso l'esterno a una velocità di due milioni e trecento miglia all'ora, più di trentottomila miglia al minuto, qualcosa di più di seicentotrentotto miglia al secondo. Quando i telescopi del ventesimo secolo erano stati puntati sulla scena di quest'immensa esplosione, rimanevano soltanto una stella doppia... e la nebulosa. La stella più luminosa del sistema doppio aveva caratteristiche quasi uniche, poiché aveva una temperatura superficiale così alta da non mostrare alcuna riga di assorbimento nello spettro. Aveva uno spettro continuo. La temperatura alla superficie del Sole è all'incirca di 7000 gradi assoluti. Quella della caldissima stella bianca era di 500.000 gradi. Questa stella aveva all'incirca la massa del Sole, ma soltanto un quinto del suo diametro, cosicché la sua densità era centosettantatré volte quella dell'acqua, sedici volte quella del piombo e otto volte quella dell'iridio, la sostanza più densa conosciuta sulla Terra. Ma questa densità, pur eccezionale, non raggiungeva quella di una nana bianca come la compagna di Sirio. La stella bianca nella Nebulosa del Granchio era una nana incompleta; una stella ancora nell'atto di collassare. L'esame ravvicinato di questa stella — unito alla lunga successione di fotografie prese all'interno del fascio luminoso da essa irradiato per quattromila anni di tempo e lungo una distanza di quattromila anni-luce attraverso lo spazio in direzione della Terra — avrebbe fornito informazioni d'inestimabile valore. La Llanvabon era giunta fin lì per compiere questo esame. Ma la scoperta d'una nave aliena intenta a un'analoga missione aveva implicazioni che relegavano in secondo piano lo scopo originario della missione.

Il minuscolo robot bulboso lasciato dagli alieni galleggiava nel tenue gas nebulare. Il personale operativo della Llanvabon era ai propri posti in attenta vigilanza, in preda a un crescente nervosismo. Il personale di osservazione si divise in due gruppi. Uno andò, a malincuore, a compiere le osservazioni per le quali la Llanvabon era venuta fin lì. L'altro gruppo si dedicò al problema rappresentato dalla nave aliena.

La presenza di questa nave implicava una cultura che aveva conseguito il volo interstellare. L'esplosione di cinquemila anni prima doveva aver spazzato via ogni traccia di vita in tutta la porzione di spazio cosmico riempita adesso dalla nebulosa. Per cui, gli alieni della nave nera dovevano provenire da un altro sistema solare esterno alla nebulosa stessa. Il loro viaggio doveva essere stato simile a quello della nave terrestre... per puri scopi scientifici. Non c'era nient'altro che si potesse ricavare dalla nebulosa.

Quindi, quegli alieni dovevano trovarsi per lo meno al livello della civiltà umana, il che significava che potevano disporre di capacità, conoscenze e merci di cui poter far commercio con gli uomini, in amicizia. Ma, fatalmente, anch'essi si sarebbero resi conto che l'esistenza dell'umanità, e il livello di civiltà da questa raggiunto rappresentavano una potenziale minaccia per la loro razza. Umani e alieni... le due razze avrebbero potuto essere amiche, ma altresì nemiche mortali. Ognuna, seppur involontariamente, rappresentava una mostruosa minaccia per l'altra. E l'unica cosa da farsi con una simile minaccia era distruggerla.

Lì, nella Nebulosa del Granchio, il problema era acuto e immediato. Quel che sarebbe stato, in futuro, il rapporto tra le due razze, sarebbe stato sistemato qui e adesso. Se fosse stato possibile stabilire relazioni di amicizia, una razza, altrimenti condannata, sarebbe sopravvissuta, ed entrambe ne avrebbero beneficiato immensamente. Ma ci si doveva, prima di tutto, conoscere, e instaurare una reciproca fiducia, senza che vi fosse il più piccolo rischio di tradimento. Nessuna delle due parti osava arrischiarsi a fare una sola delle cose indispensabili ad arrivare alla fiducia. L'unica cosa certa, per entrambe le parti, era distruggere l'altra o esser distrutta.

Ma anche per iniziare una guerra di distruzione totale, bisognava saperne assai di più sull'avversario. Vista la capacità di quegli alieni di attuare viaggi interstellari, essi dovevano disporre dell'energia atomica e di qualche forma d'iperpropulsione per viaggiare più veloci della luce. E insieme ai localizzatori, alle visipiastre, e alla telecomunicazione a onde corte, dovevano per necessità disporre di moltissimi altri congegni. Che armi avevano? Fino a che punto era estesa la loro cultura? Quali erano le loro risorse? Era possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli, di commerci, oppure le due razze erano tanto dissimili che fra esse poteva esistere soltanto la guerra? E se la pace era possibile, come si poteva cominciare?

Agli uomini della Llanvabon occorrevano fatti... e occorrevano fatti anche all'equipaggio dell'altra nave. Ognuna delle due parti doveva portare indietro con sé ogni possibile frammento d'informazione. L'informazione più importante di tutte sarebbe stata l'esatta ubicazione dell'altra civiltà, nel caso in cui vi fosse stata guerra. Ma anche altre notizie sarebbero state ugualmente preziose.

Il fatto più tragico era però che non poteva esserci nessuna possibile informazione in grado di condurre alla pace. Nessuna delle due navi era pronta a rischiare la sopravvivenza della propria razza basandosi su una dichiarazione di buona volontà o sulla parola d'onore dell'altra.

Così, era una ben strana tregua quella in atto fra le due navi. Sia quella aliena che la Llanvabon continuarono la loro attività di osservazione. Il piccolo robot sferico galleggiava nel vuoto luminoso. Una telecamera della Llanvabon era messa a fuoco su una visipiastra aliena, e viceversa. Le comunicazioni ebbero inizio.

E progredirono in fretta. Tommy Dort fu tra quelli che fecero il primo rapporto sui progressi in corso. Il suo compito specifico in quella spedizione era terminato; adesso gli era stato affidato il compito di lavorare al problema della comunicazione con le entità aliene. Si recò insieme all'unico psicologo della nave fino alla cabina del capitano, per comunicargli la notizia del primo successo conseguito. La cabina del capitano era come sempre un luogo di silenzio e le luci rosso-cupo degli indicatori occhieggiavano tra le grandi visipiastre disposte sulle pareti e sul soffitto.

«Abbiamo stabilito un contatto abbastanza soddisfacente, signore», riferì lo psicologo. Aveva un aspetto stanco; il suo lavoro, durante tutto il viaggio, avrebbe dovuto consistere nel valutare i fattori individuali di errore nel personale di osservazione, portando l'attendibilità di tutti i dati ottenuti sempre più in là, un decimale dopo l'altro, verso l'esattezza assoluta. Quel nuovo incarico, al quale non era adatto, gli era stato imposto quasi a forza, e cominciava a risentirne gli effetti deleteri. «In altre parole, siamo in grado di dir loro quasi tutto ciò che vogliamo, facendoci capire, ed essere ugualmente in grado di capire ciò che ci dicono in risposta. Ma, com'è ovvio, non sappiamo quanto ci sia di vero in quello che ci dicono».

Gli occhi del comandante si appuntarono su Tommy Dort.

«Abbiamo collegato alcune apparecchiature», riferì Tommy, «forrealizzando un traduttore automatico. Disponiamo di visipiastre, naturalmente, e altresì di fasci direzionali di onde corte. Essi usano la modulazione di frequenza, più una variazione del profilo d'onda che, probabilmente, equivale alla successione dei suoni delle vocali e delle consonanti nel discorso. È qualcosa di nuovo, per noi, perciò non disponiamo di circuiti in grado di registrarlo; abbiamo comunque elaborato una specie di codice, che non è la lingua di nessuno di noi. Loro trasmettono su onde corte in modulazione di frequenza, e noi lo registriamo come suono. Quando noi trasmettiamo suoni, vengono convertiti in modulazione di frequenza».

Il comandante disse, corrugando la fronte:

«Come avete fatto ad accorgervi della variazione del profilo delle onde corte, se non possiamo registrarla?»

«Gli abbiamo mostrato il nostro registratore nelle visipiastre, e gli alieni ci hanno fatto vedere il loro. Registrano direttamente la modulazione di frequenza. Credo», aggiunse Tommy, soppesando le parole, «che non usino affatto i suoni, neppure per parlare tra loro. Hanno montato una vera e propria cabina di comunicazione, e noi li abbiamo osservati mentre comunicavano con noi. Non c'è stato nessun movimento percettibile di qualcosa che assomigliasse a un organo vocale. Invece che a un microfono, essi si tengono vicini a qualcosa che dovrebbe funzionare come un'antenna. La mia ipotesi, signore, è che usino microonde per quella che si potrebbe definire una comunicazione tra individuo e individuo. Credo che producano pacchetti di onde corte allo stesso modo in cui noi produciamo suoni».

Il comandante lo fissò: «Questo vorrebbe dire, forse, che possiedono la telepatia?»

«Mmmm... sì, signore», annuì Tommy. «E significa che anche noi possediamo la telepatia, dal loro punto di vista. Essi, certo, ignorano il concetto della produzione di onde sonore nell'aria per comunicare. Semplicemente, non usano né suoni né rumori per nessuno scopo».

Il comandante assimilò l'informazione, poi la mise da parte.

«Qualcos'altro?»

«Be', signore...» fece Tommy, dubbioso, «credo che tutto sia pronto, adesso. Abbiamo concordato dei simboli arbitrari per ogni singolo oggetto, tramite le visipiastre, e abbiamo altresì elaborato rapporti tra i vari oggetti, verbi e così via, tramite diagrammi e immagini. Ora abbiamo un vocabolario di duemila parole che hanno un significato reciproco. Abbiamo installato un analizzatore dei loro pacchetti d'onda corta, che abbiamo collegato a una macchina decodificatrice. La sezione codificante di questa macchina sceglie poi tra le registrazioni per tradurre nei loro pacchetti d'onda, e ritrasmetterli, ogni nostro messaggio. Lei può parlare col comandante dell'altra nave anche subito, signore. Noi siamo pronti».

«Uhmmm... Qual è la sua impressione circa la loro psicologia?» Il comandante si era rivolto allo psicologo.

«Non saprei, signore», rispose questi, preoccupato. «Sembrano del tutto sinceri. Ma non hanno lasciato trapelare neppure un po' della tensione che, sappiamo, deve senz'altro esistere laggiù. Si comportano come se stessero semplicemente installando un mezzo di comunicazione tra amici. Ma c'è... be'... c'è una sfumatura...»

Quello psicologo si era sempre mostrato in gamba quando si era trattato di valutare la psicologia degli umani, una cosa assai bella e utile. Ma non era attrezzato per analizzare uno schema di pensiero del tutto alieno.

«Se posso permettermi, signore...» disse Tommy, a disagio.

«Sì?»

«Respirano ossigeno», proseguì Tommy. «E non sono molto diversi da noi anche sotto altri aspetti. Mi sembra, signore, che vi sia stata un'evoluzione parallela. Forse l'intelligenza si evolve in linee parallele proprio come... si... le funzioni basilari del corpo. Voglio dire», puntualizzò, «qualunque essere vivente, di qualunque tipo, deve ingerire, metabolizzare ed espellere. E forse, allo stesso modo, ogni cervello intelligente deve percepire, valutare e avere reazioni personali. Sono sicuro di aver percepito dell'ironia. Ciò implica anche l'esistenza di umorismo. In breve, signore, penso che possano rivelarsi creature piacevoli».

Il comandante si alzò in piedi.

«Hmmm...» fece, pensieroso, «vedremo quello che hanno da dire».

S'incamminò verso la cabina di comunicazione. Il trasmettitore d'immagini collegato al robot alieno era pronto, e il comandante si piazzò davanti ad esso. Tommy Dort si sedette alla macchina codificatrice e cominciò a battere sui tasti. Ne uscirono dei rumori del tutto improbabili che entrarono in un microfono e qui modularono la frequenza d'un segnale inviato all'altra astronave attraverso lo spazio. Quasi subito la visipiastra del robot sferico si accese, mostrando l'interno illuminato dell'altra nave. Un alieno si portò davanti all'obbiettivo e sembrò guardar fuori, in attesa, dalla visipiastra. La sua somiglianza con un essere umano era sbalorditiva. Ma non era umano. Era completamente calvo, e li fissò con uno sguardo schietto, con una vaga ombra ironica.

«Vorrei dire», cominciò il comandante, con voce grave, «le cose giuste, in questo primo contatto fra due differenti razze civilizzate, ed esprimere la speranza che tra i nostri due popoli s'instauri un rapporto d'amicizia».

Tommy Dort esitò, poi scrollò le spalle e batté con mano esperta sulla codificatrice. Altri improbabili rumori.

Il comandante alieno ricevette il messaggio. Fece un gesto di assenso, anche se non del tutto convinto. Il decodificatore sulla Llanvabon prese a ronzare e una successione di schede, una per parola, cadde giù in bell'ordine formando il messaggio in risposta nell'apposito riquadro. Tommy annunciò, con voce incolore:

«Signore, sta dicendo: "Tutto ciò suona bene, ma c'è un sistema che permetta a entrambi di tornare a casa vivi? Sarei felice se lei mi potesse descrivere un simile sistema, nel caso sia riuscito a idearlo. Al momento, mi pare inevitabile che uno di noi due debba essere ucciso"».

 

La confusione era al colmo. C'erano troppe domande che avrebbero dovuto trovar subito una risposta. Ma nessuno poteva rispondere a tutte. Eppure, bisognava.

La Llanvabon avrebbe potuto ripartire verso casa. La nave aliena poteva essere in grado, oppure no, di moltiplicare la velocità della luce per una unità in più rispetto al vascello terrestre. Se era in grado di andar più veloce, la Llanvabon avrebbe finito per arrivare abbastanza vicina alla Terra, rivelando la sua destinazione, e qui esser costretta a combattere. Avrebbe vinto, oppure no. Ma anche se avesse vinto, gli alieni potevano disporre d'un sistema di comunicazione grazie al quale informare il loro pianeta d'origine, prima dell'inizio della battaglia, di dov'era situata la base di partenza della Llanvabon. Ma la nave dei terrestri avrebbe anche potuto venire sconfitta. E se il suo destino era quello di finire distrutta, allora sarebbe stato meglio che ciò avvenisse qui, dove non avrebbe fornito nessun indizio circa la zona di spazio in cui gli esseri umani avrebbero potuto esser trovati da una flotta da guerra aliena, preavvertita e armata fino ai denti.

Ma... la nave nera si trovava esattamente nell'identica situazione. Anch'essa avrebbe potuto ripartire verso casa. Ma la Llanvabon poteva rivelarsi più veloce e tallonarla (la traccia lasciata da un campo iperpropulsivo non era affatto difficile da seguirsi, se ci si metteva all'opera con prontezza e con gli strumenti adatti). Inoltre, anche gli alieni non potevano sapere se la Llanvabon era in grado di far rapporto alla sua base di partenza anche da quell'immensa distanza. E se c'era una forte probabilità di venir distrutti, anche gli alieni avrebbero preferito combattere là nella nebulosa, piuttosto che far da guida a un probabile nemico fino al cuore della propria civiltà.

Quindi, nessuna delle due navi poteva pensare di fuggire. Era possibile che la nave nera conoscesse la rotta della Llanvabon all'interno della nebulosa, ma questa era una curva logaritmica, e poteva esser seguita all'indietro, questo è vero, ma senza conoscere il punto esatto in cui la curva aveva avuto inizio, era impossibile conoscere la direzione da cui la nave dei terrestri era arrivata attraverso la Galassia. Per il momento, dunque, le due navi erano alla pari. Ma la domanda era, e restava: «E adesso?»

Non c'era nessuna risposta specifica. Gli alieni scambiavano informazioni al ritmo di una data per una ricevuta — e non sempre sembravano rendersi conto di quali informazioni in realtà stessero dando. Anche per gli umani si procedeva al ritmo di un'informazione data per una ricevuta — e Tommy Dort sudava sangue per l'ansia di non fornire nessun indizio circa l'ubicazione della Terra.

Gli alieni vedevano alla luce infrarossa, e le visipiastre e le telecamere degli umani e degli alieni dovevano far variare le rispettive frequenze di trasmissione di un'intera ottava all'insù o all'ingiù perché le immagini trasmesse dall'una all'altra nave fossero reciprocamente visibili. Agli alieni non venne in mente che le caratteristiche della loro vista rivelavano che il loro sole era una nana rossa, il cui massimo di radiazione si trovava a una frequenza appena al di sotto di quella minima visibile agli occhi umani. Ma non appena sulla Llanvabon ci si congratulò per questa brillante deduzione, ci si rese conto che anche gli alieni, in base al tipo di radiazione cui erano sensibili gli occhi umani, potevano aver dedotto il tipo di luce irradiato dal Sole.

C'era un congegno per la registrazione dei pacchetti d'onde corte che veniva usato correntemente tra gli alieni, così come gli uomini usavano i registratori di suoni. Gli umani bramavano averlo a tutti i costi. E allo stesso modo gli alieni erano affascinati dai misteri del suono. Naturalmente, gli alieni erano, si, in grado di percepire i suoni, ma allo stesso modo in cui il palmo della mano di un uomo percepisce la luce infrarossa attraverso la sensazione del calore, ma non riuscivano a distinguere l'altezza di un suono, o il timbro, più di quanto un uomo sia capace di distinguere fra due frequenze di radiazione termica, anche se separata da una mezza ottava. Per quegli alieni, la scienza umana dei suoni era una straordinaria scoperta. Avrebbero trovato usi, per i rumori, che gli umani non si sarebbero mai sognati... se fossero sopravvissuti.

Ma quello era un problema secondario. Nessuna delle due navi poteva partire se prima non avesse distrutto l'altra. Ma, mentre il flusso delle informazioni continuava, nessuna delle due navi poteva permettersi di distruggere l'altra. C'era altresì la faccenda del colore esterno delle due navi. La Llanvabon risplendeva, all'esterno, come uno specchio; la nave aliena era d'un nero tenebroso alla luce visibile. Assorbiva perfettamente il calore, e avrebbe dovuto irradiarlo con altrettanta prontezza. Ma non era così. Quel rivestimento nero non la rendeva equivalente a un «corpo nero», non era, cioè, una mancanza assoluta di «colore». In realtà, era una perfetta superficie riflettente per certe lunghezze d'onda infrarosse; altre, a una frequenza più alta, le assorbiva, convertendone una parte a una frequenza più bassa, di frequenza uguale alle radiazioni riflesse. Grazie a questa sorta di «fluorescenza» nell'infrarosso, la nave aliena si garantiva un perfetto equilibrio termico e manteneva costante la temperatura interna anche lì, nel vuoto.

 

Tommy Dort stava duramente sgobbando alla sezione comunicazioni. Non trovava i processi mentali degli alieni talmente alieni da non riuscire a seguirli. Le discussioni tecniche, ora, avevano raggiunto lo stadio della navigazione interstellare. Per illustrare le rispettive tecniche era necessaria una mappa stellare. Naturalmente, non era certo il caso di procurarsi una mappa presa dalla sala delle carte della Llanvabon,poiché gli alieni, studiandola, avrebbero potuto senz'altro scoprire il punto dal quale la mappa era stata proiettata. Tommy, perciò, si era confezionato una mappa nuova di zecca con immagini stellari immaginarie ma convincenti riprodotte su di essa. Trasmise, quindi, le istruzioni per l'interpretazione attraverso la codificatrice. In cambio, gli alieni presentarono una propria mappa stellare alla visipiastra del robot sferico. Copiatala all'istante a mezzo fotografia, gli ufficiali della Llanvabon si misero subito a lavorarci sopra, cercando di calcolare da quale punto della Galassia le costellazioni sarebbero apparse in quel modo. La mappa li lasciò assai perplessi.

Fu Tommy che finì per rendersi conto che anche gli alieni avevano realizzato una mappa stellare posticcia per quella dimostrazione... un'immagine speculare della finta mappa che lui stesso aveva propinato loro poco prima.

A questa constatazione, Tommy sogghignò. Quegli alieni cominciavano a piacergli. Non erano umani. Ma avevano un senso molto umano dell'umorismo. A un certo punto, Tommy tentò una battuta di spirito. Dovette venir tradotta in codice, e poi trasformata in una successione di pacchetti d'onde corte, a modulazione di frequenza, questi pacchetti furono trasmessi all'altra nave, e qui Dio soltanto sapeva attraverso quali altri congegni si trovarono costretti a passare per diventare intelligibili. Non sembrava proprio che una battuta di spirito, costretta a passare attraverso tante formalità, avesse molte possibilità di sembrar divertente ai destinatari. Ma gli alieni riuscirono ugualmente a capirla.

Per uno di quegli alieni l'uso del trasmettitore divenne una funzione normale almeno quanto era diventato per Tommy l'uso della codificatrice. Tra l'umano e il suo equivalente alieno si sviluppò ben presto una paradossale amicizia che ambedue svilupparono conversando tra loro tramite codificatrice, decodificatore e pacchetti d'onde corte a modulazione di frequenza. Quando le questioni tecniche nei rispettivi messaggi cominciarono a farsi troppo impegnative, quell'alieno a volte ci buttava dentro delle sue personali interpretazioni in una sorta di slang... e molto spesso era proprio quest'intercalare alla buona che chiariva i punti di maggior confusione. Tommy, per nessun particolare motivo, aveva registrato in codice il nome «Daino», che il decodificatore ora sceglieva ogni volta che quel particolare alieno firmava un messaggio col proprio simbolo.

Durante la terza settimana di comunicazioni, il decodificatore esibì all'improvviso a Tommy, nell'apposito riquadro, il messaggio:

 

Sei un bravo tipo. Peccato che dobbiamo ucciderci - DAINO.

 

Tommy, che aveva pensato la stessa cosa, batté la sua amara risposta:

 

Non riusciamo a vedere una via d'uscita. E voi?

 

Vi fu una pausa, poi si formò un altro messaggio:

 

Se potessimo fidarci l'uno dell'altro, si. Al nostro comandante piacerebbe. Ma non possiamo fidarci di voi, e voi non potete fidarvi di noi. Ma ci dispiace - DAINO.

 

Tommy Dort portò i messaggi al comandante.

«Guardi qua, signore!» disse, affannato. «Questa gente è quasi umana. Sono dei tipi simpatici».

Il comandante era impegnato nel suo importante compito di pensare alle cose di cui preoccuparsi, e se ne preoccupava. Replicò, stancamente:

«Respirano ossigeno. La loro aria ha il ventotto per cento di ossigeno, ma potrebbero cavarsela molto bene anche sulla Terra. Per loro il nostro pianeta sarebbe una preziosa conquista. E non sappiamo ancora quali armi abbiano, né di che cosa sono capaci. Lei gl'insegnerebbe la strada per la Terra?»

«È probabile che loro la pensino allo stesso modo», aggiunse il comandante, asciutto. «E se anche riuscissimo a stabilire un contatto amichevole, per quanto tempo resterebbe amichevole? Se le loro armi fossero inferiori alle nostre, penserebbero di doverle migliorare per la loro stessa sicurezza. E noi, sospettando la loro intenzione di ribellarsi, li schiacceremmo non appena ci fosse possibile... per motivi di sicurezza! E se fossero le nostre armi ad essere inferiori, sarebbero loro a doverci liquidare prima che potessimo metterci alla pari!»

Tommy non aveva replicato, ma si agitava inquieto.

«Se distruggessimo questa nave aliena e ce ne tornassimo a casa», disse ancora il comandante, «il governo della Terra ci farebbe oggetto del suo biasimo se non sapessimo dirgli da dove provenivano. Ma cosa possiamo fare? Potremo chiamarci fortunati se riusciremo a ritornare vivi, con l'annuncio di questa civiltà aliena. Non è possibile estrarre da queste creature più informazioni di quante noi stessi gliene diamo, e certo noi non gli daremo il nostro indirizzo! Ci siamo imbattutti in loro per caso. Forse, se distruggessimo questa nave, non ci sarà un altro contatto per altri mille anni. E sarebbe un peccato, perché tutti gli scambi possibili con loro potrebbero significare tanto!

«Ma bisogna essere in due per fare la pace, e noi non possiamo rischiare di fidarci di loro. L'unica risposta è ucciderli, se possiamo, e se non possiamo, accertarci che quando ci uccideranno, non scoprano niente che possa condurli fino alla Terra. Non mi piace», concluse il comandante, desolato, «ma, semplicemente, non c'è nient'altro da fare!»

 

Sulla Llanvabon i tecnici lavoravano frenetici, divisi in due gruppi: uno si preparava per la vittoria, l'altro per la sconfitta. Quelli che lavoravano per la vittoria potevano far poco. I fulminatori principali erano le uniche armi che dessero qualche affidamento. Le loro incastellature furono modificate così da non essere più fisse, con soli cinque gradi di gioco come erano state finora. Adesso, collegate grazie a dei sistemi elettronici a una centrale automatica, a sua volta comandata da un localizzatore radar, avrebbero tenuto i fulminatori esattamente puntati con assoluta precisione su un dato bersaglio, qualunque manovra questo tentasse per disimpegnarsi. Inoltre, in sala-motori, un genio fino a quel momento misconosciuto, aveva congegnato un sistema di accumulatori grazie al quale l'intera energia normalmente prodotta dai motori della nave poteva essere temporaneamente immagazzinata e liberata a straripanti bordate. Almeno teoricamente, la portata dei fulminatori ne risultava moltiplicata e le loro capacità distruttive portate a livelli assai maggiori... Ma non c'era granché di più che si potesse fare.

Il gruppo per la sconfitta aveva assai più spazio per manovrare. Le mappe stellari, gli strumenti di navigazione che contenevano indicazioni rivelatrici, le registrazioni fotografiche che Tommy Dort aveva realizzato durante i sei mesi di viaggio dalla Terra, e qualunque altra cosa che potesse offrire indizi sull'ubicazione della Terra nella Galassia, furono approntati per la distruzione. Furono posti in armadi chiusi ermeticamente, i quali, aperti da qualcuno che non conoscesse tutte le fasi del corretto procedimento per farlo, avrebbero trasformato in cenere il loro contenuto in una sola vampata, soffiando via le ceneri in modo che non fosse possibile ricostruire niente da esse. Naturalmente, se la Llanvabon fosse uscita vittoriosa, esisteva il metodo — tenuto prudentemente segreto — per aprirli in tutta sicurezza.

Delle bombe atomiche furono piazzate lungo tutto lo scafo della nave. Se l'equipaggio umano fosse rimasto completamente ucciso senza che la nave andasse distrutta, quelle bombe sarebbero scoppiate non appena la Llanvabon fosse stata arpionata e portata al fianco dello scafo alieno. Non che ci fossero delle bombe atomiche già pronte a bordo, ma la nave disponeva di cartucce di riserva di combustibile nucleare e non fu difficile riadattarle in modo che, una volta attivate, invece di liberare un flusso graduale d'energia, esplodessero. E quattro uomini del personale operativo della nave terrestre rimanevano sempre in tuta spaziale, coi caschi chiusi, per continuare a combattere contro la nave aliena nel caso in cui lo scafo della Llanvabon fosse stato perforato da prua a poppa in un attacco improvviso.

Un simile attacco, tuttavia, non sarebbe avvenuto a tradimento. Il comandante alieno aveva parlato con franchezza. I suoi modi erano quelli d'un individuo che mal giudicava le bugie, ammettendone l'inutilità. A loro volta, la Llanvabon e il suo comandante sostenevano, scandendo ogni parola, le virtù della franchezza. Ognuna delle due parti insisteva — e forse era sincera — di desiderare l'amicizia fra le due razze. Ma nessuna delle due parti poteva fidarsi che l'altra, proprio mentre diceva questo, non stesse invece facendo ogni sforzo per scoprire proprio quell'unica cosa che a tutti i costi bisognava nascondere: l'ubicazione del pianeta d'origine dell'altra nave. E nessuna delle due navi osava credere che l'altra fosse incapace di seguirla per tutto il viaggio di ritorno, e scoprirlo. Poiché ognuna delle due parti sentiva che era suo dovere compiere proprio quest'atto, inaccettabile dall'altra, nessuna delle due poteva rischiare la sopravvivenza della propria gente mostrandosi fiduciosa. Dovevano combattere, poiché non potevano fare nient'altro.

Potevano procrastinare l'inizio della battaglia scambiandosi informazioni. Ma c'era un limite alla quantità e al tipo d'informazioni che si potevano offrire. Né gli uni né gli altri avrebbero dato informazioni sulle armi, sull'entità e la distribuzione della popolazione e delle risorse. Non sarebbe mai stata rivelata neppure la distanza dei propri mondi d'origine dalla Nebulosa del Granchio. Certo, si scambiarono parecchie informazioni, ma sapevano che tutto era destinato a concludersi con una battaglia all'ultimo sangue, e ognuna delle due parti si affannava a dipingere la propria civiltà come dotata d'una straripante potenza, per intimorire l'altra e dissuaderla da ogni prospettiva di conquista; in tal modo i terrestri apparivano sempre più minacciosi agli alieni, e viceversa, e la battaglia finale era resa sempre più inevitabile.

Tuttavia, era curioso come questi cervelli alieni potessero colloquiare, intrecciarsi fra loro, capirsi... Tommy Dort, continuando a sudare tra codificatrice e decodificatore, vide emergere qualcosa d'inconfondibile, di personale, da quella che all'inizio era soltanto un'accozzaglia ampollosa di parole-scheda, Tommy aveva visto gli alieni soltanto alla visipiastra, e anche così in una luce dalla frequenza spostata di un'ottava rispetto alla luce alla quale essi vedevano. E gli alieni, a loro volta, lo vedevano anch'essi in una maniera strana, in una luce spostata di un'ottava rispetto a quello che, per i loro occhi, sarebbe stato il lontano ultravioletto. Ma il cervello umano e quello alieno funzionavano allo stesso modo. In maniera sbalorditivamente uguale. Tommy Dort provava simpatia, anzi, qualcosa di molto simile all'amicizia, per quelle creature della nave spaziale nera, calve, con una loro asciutta ironia, e che respiravano, com'era stato appurato, tramite branchie.

Spinto da quella affinità mentale, preparò — anche senza nessuna speranza — una specie di tabella con tutti gli aspetti del problema che si trovavano ad affrontare. Non era affatto convinto che quegli alieni avessero l'istintivo desiderio di distruggere l'uomo. In effetti, l'analisi approfondita delle comunicazioni che continuavano a giungere dagli alieni aveva finito per creare, sulla Llanvabon,un sentimento di tolleranza non dissimile da quello che aveva quasi sempre finito per crearsi, sulla Terra, fra i soldati nemici durante una tregua. Gli uomini non provavano nessun sentimento d'inimicizia, e con tutta probabilità neppure gli alieni. Ma dovevano uccidere, o essere uccisi, a causa d'una logica implacabile.

La tabella di Tommy era assai dettagliata. Fece una lista degli obbiettivi che gli umani miravano a conseguire, in ordine d'importanza. Il primo era senz'altro quello di portare indietro, sulla Terra, la notizia dell'esistenza della cultura aliena. Il secondo, era l'esatta localizzazione di quella cultura aliena in un preciso pianeta della Galassia. Il terzo era riportare indietro il maggior numero possibile d'informazioni su quella cultura. Sul terzo ci stavano lavorando sopra, ma il secondo era probabilmente impossibile. Il primo sarebbe dipeso dal risultato che doveva aver luogo.

Gli obbiettivi degli alieni sarebbero stati esattamente gli stessi, cosicché gli uomini dovevano impedire, primo, che la notizia dell'esistenza della civiltà della Terra fosse riportata indietro da essi sul loro pianeta natale; secondo, che gli alieni scoprissero la posizione della Terra; e, terzo, l'acquisizione da parte degli alieni d'informazioni che li potessero incoraggiare e aiutare ad attaccare l'umanità. Ma anche in questo caso il terzo punto era in corso, del secondo si stavano con tutta probabilità occupando, e il primo doveva aspettare la battaglia.

Non c'era nessuna possibilità di evitare l'amara necessità di distruggere la nave nera. E anche gli alieni non avrebbero visto nessun'altra soluzione del loro problema se non la distruzione della Llanvabon. Ma Tommy Dort, contemplando mesto la tabella si rese conto che neppure la vittoria completa sarebbe stata la soluzione perfetta. L'ideale sarebbe stato che la Llanvabon portasse con sé la nave nera per poterla studiare. Soltanto in questo modo il terzo obbiettivo sarebbe stato realizzato in pieno. Ma Tommy si rese conto di odiare l'idea d'una vittoria così completa, anche se fosse stata possibile. Odiava l'idea di dover uccidere delle creature, anche se erano non-umane e perfettamente in grado di afferrare il concetto di esseri umani che allestivano una flotta da combattimento per distruggere una cultura aliena in quanto la sua esistenza rappresentava un pericolo. Il puro caso di quell'incontro, sia pure tra gente che avrebbe potuto provar simpatia l'una per l'altra, aveva creato una situazione che poteva sfociare soltanto nella distruzione totale.

Tommy Dort era amareggiato nei confronti del proprio cervello che si mostrava incapace di trovare una risposta in grado di funzionare. Ma doveva esserci una risposta! La posta in gioco era troppo grossa! Era troppo assurdo che due navi spaziali dovessero combattere — e nessuna delle due era stata concepita per farlo — cosicché il sopravvissuto riportasse indietro la notizia che avrebbe indotto la sua razza a compiere frenetici preparativi contro l'altra che non era stata in nessun modo avvertita.

Tuttavia, se entrambe le razze fossero state avvertite, e ciascuna delle due avesse saputo che l'altra non voleva combattere, e se avessero potuto comunicare l'una con l'altra ma non localizzarsi a vicenda finché non fosse stato trovato un terreno per la reciproca fiducia...

Era impossibile. Era una chimera. Era un sogno a occhi aperti. Era una sciocchezza. Ma era una sciocchezza tanto attraente che Tommy Dort, con una punta d'amaro, la trasferì nella codificatrice per comunicarla al suo amico Daino che respirava con le branchie e in quel momento si trovava a qualche centinaio di migliaia di miglia di distanza, in mezzo alla nebbiosa luminosità della nube.

«Certo», rispose Daino, nelle schede-parole che guizzarono al loro posto nel riquadro del decodificatore. «È un bel sogno. Ma anche se mi sei simpatico non posso ancora crederti. Se l'avessi detto io per primo, mi troveresti simpatico ma neppure tu mi crederesti. Io ti dico la verità più di quanto tu creda, e forse tu mi dici la verità più di quanto io ti creda. Ma non c'è nessun modo di esserne certi. Mi spiace».

Tommy Dort fissò con tristezza il messaggio. Avvertiva uno sgradevolissimo, orribile senso di responsabilità. Tutti l'avvertivano sulla Llanvabon. Se avessero fallito in quell'incontro, la razza umana avrebbe avuto un'ottima probabilità d'essere sterminata in un prossimo futuro. Se invece avessero avuto successo, sarebbe stata con ogni probabilità la razza degli alieni che si sarebbe trovata ad affrontare la distruzione. Milioni e milioni di vite dipendevano dalle azioni di pochi uomini.

Fu allora che Tommy Dort vide la risposta.

Sarebbe stato incredibilmente semplice, se avesse funzionato. Nel peggiore dei casi avrebbe dato una vittoria parziale all'umanità e alla Llanvabon. Tommy restò seduto, immobile, non osando compiere il minimo movimento per timore che ciò potesse spezzare la catena di pensieri che era seguita a quella prima, tenue idea. La rimuginò tra sé più volte, in preda a una crescente eccitazione, trovando qua delle obiezioni e risolvendole, e là delle impossibilità, e superandole. Era la risposta! Ne era più che convinto.

Quando imboccò il corridoio che conduceva alla cabina del comandante e chiese il permesso di parlare, si sentì quasi stordito dal sollievo.

Una delle funzioni del comandante, fra le molte, è quella di cercare le cose di cui preoccuparsi. Ma il comandante della Llanvabon non aveva certo bisogno di andarsele a cercare, le sue preoccupazioni. Durante le tre settimane e quattro giorni da quando c'era stato il primo contatto con la nave nera aliena, il volto del comandante era invecchiato e si era coperto di rughe. Non doveva preoccuparsi per la sola Llanvabon,ma per tutta l'umanità.

«Signore», disse Tommy Dort, la gola secca a causa della schiacciante importanza di ciò che stava per riferire. «Posso proporle un modo per impadronirsi della nave nera? L'intraprenderò io stesso, signore, e se non dovesse funzionare, la nostra nave non ne uscirà indebolita».

Il comandante lo fissò senza vederlo.

«Ogni tattica possibile è già stata elaborata, signor Dort», replicò, in tono grave. «Ora vengono tutte perforate su nastro, perché la nave possa usufruirne. È un terribile rischio, ma bisogna correrlo».

«Credo», insisté Tommy, calcando le parole, «di aver escogitato un modo per eliminare il rischio. Supponga, signore, che inviamo un messaggio all'altra nave, offrendo...»

La sua voce continuò, nel silenzio totale della cabina del comandante, con le visipiastre che mostravano soltanto una vasta nebulosità all'esterno e le due stelle che ardevano feroci nel cuore della nube.

Il comandante in persona passò attraverso la camera di equilibrio insieme a Tommy. Per un motivo, l'azione suggerita da Tommy richiedeva l'appoggio della sua autorità. Per un altro, il comandante si era preoccupato con più intensità di chiunque altro, là sulla Llanvabon,e la cosa l'aveva stancato. Se fosse andato con Tommy, lui stesso si sarebbe preso il carico e la responsabilità dell'atto; se avesse fallito, sarebbe stato il primo a restare ucciso, ma il nastro con tutte le manovre in dettaglio della nave terrestre era già stato dato in pasto al sincronizzatore principale. Se. Tommy e il comandante fossero rimasti uccisi, sarebbe bastato schiacciare un solo pulsante per scagliare la Llanvabon nel più furioso di tutti gli attacchi totali, destinato a concludersi con la completa distruzione della nave terrestre o di quella aliena... o di entrambe. Così, il comandante non aveva disertato il suo posto.

Il portello esterno della camera di equilibrio si spalancò, aprendosi su quel vuoto splendente che era la nebulosa. A venti miglia di distanza il piccolo robot nero era sospeso nello spazio, alla deriva in un'incredibile orbita intorno ai soli gemelli centrali, e galleggiando sempre più vicino ad essi. Naturalmente, non avrebbe mai raggiunto nessuno dei due. La stella bianca da sola era talmente più calda del Sole della Terra che la sua vampa termica avrebbe riscaldato un oggetto alla stessa temperatura di quella media dell'atmosfera terrestre perfino a una distanza quintupla di quella di Nettuno dal Sole. Anche trovandosi a una distanza pari a quella di Plutone dal Sole il piccolo robot sarebbe diventato rosso come una ciliegia per il calore irradiato dall'avvampante nana bianca. E non poteva certo avvicinarsi a soli centocinquanta milioni di chilometri, che sono all'incirca la distanza della Terra dal Sole: così vicino, il suo metallo si sarebbe fuso, ribollendo sempre più e fuggendo via sotto forma di vapore. Ma, a mezzo anno-luce di distanza dalla stella doppia, il bulboso oggetto nero ondeggiava tranquillo nel vuoto.

Le due figure in tuta spaziale si librarono allontanandosi sulla Llanvabon. I piccoli propulsori atomici che facevano di esse delle piccole astronavi autonome avevano subìto delle modifiche accortamente studiate e inappariscenti all'esterno, ma che non interferivano col loro funzionamento. Puntarono verso il robot comunicatore. Il comandante, una volta là fuori, nello spazio, disse burbero: «Signor Dort, durante tutta la mia vita ho bramato l'avventura. Questa è la prima volta che ne vivo una autentica».

La sua voce giunse a Tommy attraverso gli auricolari spaziofonici. A sua volta, Tommy s'inumidì le labbra e rispose: «A me non sembra una avventura, signore. Io voglio fortissimamente che il piano vada in porto. Credo che si possa parlare di avventura quando del suo esito non ci importa poi tanto».

«Oh, no», ribatté il comandante. «C'è avventura quando si butta la propria vita sulla bilancia della fortuna e si guarda dove l'ago si arresta».

Raggiunsero il robot sferico. Si aggrapparono alle sue corte corna sormontate dai sensori.

«Intelligenti queste creature», dichiarò il comandante con voce grave. «Devono disperatamente voler vedere qualcosa di più della nostra nave, oltre alla sola cabina delle comunicazioni, per aver acconsentito a questo scambio di visite prima della battaglia».

«Sì, signore», annuì Tommy. Ma dentro di sé sospettava che Daino, il suo amico che respirava con le branchie, volesse veder lui in carne e ossa, prima che uno di loro, o tutti e due, morissero. E gli parve che tra le due navi avesse preso forma un preciso rituale di cortesie, come quello tra due antichi cavalieri prima d'un torneo, quando si esprimevano l'un l'altro una sincera ammirazione prima di colpirsi con tutte le armi e i colpi a disposizione.

Attesero.

Poi, altre due figure uscirono dalla nebbia: due alieni anch'essi in tute spaziali munite di propulsori. Gli alieni erano più corti degli umani, e le visiere dei loro caschi erano schermate da filtri che escludevano i raggi visibili e gli ultravioletti, che per loro sarebbero stati letali. Non si distingueva niente più, delle loro teste, che un vago profilo.

Il telefono nel casco di Tommy disse, dalla sala comunicazioni della Llanvabon: «Dicono che la loro nave la sta aspettando, signore. La camera d'equilibrio sarà aperta».

La voce del comandante disse a sua volta, in tono grave: «Signor Dort, Lei aveva già visto le loro tute spaziali? Se è così, è sicuro che non stiano trasportando qualcosa di extra, ad esempio bombe?»

«Sì, signore», rispose Tommy. «Ci siamo mostrati il nostro reciproco equipaggiamento per lo spazio. Ora, non si vede altro che roba normale, regolare».

Il comandante fece un gesto ai due alieni. Lui e Tommy Dort continuarono il tuffo verso la nave nera. A occhio nudo non riuscivano a distinguere la nave con molta chiarezza, ma dalla sala comunicazioni giungevano continuamente le istruzioni per ogni cambiamento di direzione.

La nave nera si profilò infine sopra di loro. Era gigantesca, lunga quanto la Llanvabon ma molto più grossa. La camera di equilibrio era aperta. I due uomini in tuta spaziale entrarono e si ancorarono al pavimento con le suole magnetiche degli stivali. Il portello esterno si chiuse. Si udì il sibilo dell'aria che entrava e allo stesso tempo fu innestata la gravità artificiale. Poi, il portello interno si aprì.

Tutto era tenebra. Tommy accese la lampada del suo casco nel medesimo istante del comandante. Poiché gli alieni vedevano nell'infrarosso, una luce bianca sarebbe stata per loro insopportabile. Perciò le luci nei caschi dei due uomini erano rosso-cupo, quello stesso che veniva impiegato per illuminare i pannelli della "strumentazione, così da non abbacinare occhi che non sopportavano neppure la più piccola scintilla di luce bianca in una visipiastra. C'erano alcuni alieni che li stavano aspettando. Ammiccarono più volte alla luce delle lampade dei caschi. I ricevitori del telefono spaziale dissero all'orecchio di Tommy: «Signori, stanno dicendo che il loro comandante l'aspetta».

Tommy e il comandante si trovavano in un lungo corridoio dal pavimento cedevole. Le loro luci mostravano una gran quantità di dettagli strani.

«Credo che aprirò il mio casco, signore», annunciò Tommy.

Lo fece. L'aria era buona. Stando alle analisi, la percentuale d'ossigeno doveva toccare il trenta per cento rispetto al venti dell'atmosfera terrestre, ma la pressione era minore. Nel complesso, pareva senz'altro adatta a polmoni umani. Anche la gravità artificiale era inferiore a quella mantenuta a bordo della Llanvabon. Il pianeta d'origine degli alieni doveva essere più piccolo della Terra e... stando ai raggi infrarossi... doveva orbitare intorno a un sole rosso-cupo, quasi morto. L'aria aveva strani odori, ma non sgradevoli.

Un'apertura ad arco. Una rampa dello stesso materiale morbido che rivestiva i pavimenti; luci che diffondevano un fioco bagliore rosso-cupo. Come gesto di cortesia, gli alieni avevano aumentato l'intensità di quella parte del loro impianto d'illuminazione. Quella luce certo gli abbagliava, ma era un gesto di riguardo che fece desiderare ancor di più a Tommy che il suo piano andasse in porto.

Il comandante alieno li fronteggiò con quello che a Tommy parve un gesto arguto e deprecatorio insieme. Gli auricolari nel casco dissero: «Il comandante alieno, signore, dice che vi dà il benvenuto con piacere, ma che è riuscito a pensare a un solo modo, purtroppo, in cui il problema creato dall'incontro di queste due navi può venir risolto».

«Intende riferirsi alla battaglia», interloquì il comandante. «Ditegli che sono qui per proporgli un'altra scelta».

Il comandante della Llanvabon e il comandante della nave aliena erano faccia a faccia, ma il loro modo di comunicare era bizzarramente indiretto. Infatti parlavano grazie alle microonde, quasi una forma di telepatia. Ma non potevano udire le parole nel senso ordinario della cosa... per cui anche il comandante della Llanvabon e Tommy parlavano tra loro in un modo che, dal punto di vista degli alieni, era telepatia. Quando il comandante terrestre parlò, il suo telefono spaziale rinviò le sue parole alla Llanvabon,dove qui vennero date in pasto alla codificatrice, dopo di che un loro equivalente sotto forma di onde corte venne rispedito alla nave nera. La risposta del comandante alieno giunse alla Llanvabon,passò attraverso il decodificatore e fu ritrasmessa tramite il telefono spaziale sotto la forma di parole leggibili, lette appunto dai tecnici della comunicazione nell'apposito riquadro. Un sistema scomodo, ma funzionava.

L'alieno basso e tarchiato fece una pausa. Gli auricolari del casco ritrasmisero ai terrestri la sua risposta altrimenti silenziosa: «È pronto, anzi, desideroso di ascoltarla, signore».

Il comandante terrestre si tolse il casco. Portò le mani ai fianchi, assumendo un posa bellicosa.

«Senta un po'!» esclamò, con fare truculento, rivolgendosi alla strana, calva creatura che gli stava davanti, avvolta in un ultraterreno bagliore rosso. «Pare che si debba combattere e che, noi o voi, una delle due parti debba restare uccisa. Siamo pronti a farlo, se sarà necessario. Ma se voi vincerete, abbiamo predisposto le cose in modo che voi non possiate mai scoprire dove si trova la Terra, e c'è una buona probabilità che anche dopo morti si riesca a distruggervi! Ma se vinceremo noi, ci troveremo in un'identica situazione. Ma se noi vinceremo e torneremo a casa, il nostro governo armerà una flotta e comincerà a dar la caccia al vostro pianeta. Se lo troveremo, saremo pronti a farlo saltare in aria! Se vincerete voi, la stessa cosa accadrà a noi! E questa è follia! Siamo qui da un mese, abbiamo continuato a scambiarci informazioni, e nessuno di noi odia l'altro. E non abbiamo nessun motivo di combattere, se non per il futuro degli altri e delle nostre rispettive razze!»

Il comandante si fermò a riprender fiato, corrugando la fronte. Senza dar nell'occhio, anche Tommy portò le mani alla cintura della sua tuta spaziale. Attese, sperando disperatamente che l'espediente funzionasse.

«Ha risposto, signore», riferirono gli auricolari del casco, «che tutto ciò che lei dice è vero. Ma che la sua razza va protetta, proprio come lei ritiene che debba esserlo la sua».

«Certo», sbottò il comandante con rabbia, «ma la cosa davvero sensata da fare è quella d'immaginare un modo efficace di proteggerle! Mettere a repentaglio l'intero futuro in un combattimento è insensato. Come pure il fatto che le nostre razze non debbano essere informate l'una dell'esistenza dell'altra. Invece, ognuna delle due dovrebbe avere prove concrete che l'altra non soltanto esiste, ma non vuole combattere e desidera soltanto essere amica. E noi dovremmo essere in grado, qui, di trovare il modo di comunicare gli uni con gli altri su una base di reciproca fiducia. Se i nostri governi, poi, vorranno esser pazzi, che lo siano pure! Ma noi dovremmo dargli, almeno, la possibilità di diventare amici, invece di cominciare scatenando una guerra spaziale solo perché abbiamo reciprocamente paura!»

Il telefono spaziale disse in breve: «Dice che la maggior difficoltà sta proprio nel fidarsi l'uno dell'altro qui, adesso. Lui, con la possibilità ch«sia messa a repentaglio l'esistenza stessa della sua razza, non può correre nessun rischio, e neppure lei può correrlo, di concedere all'altro un vantaggio».

«Ma la mia razza», tuonò il comandante, fissando furioso il capitano alieno, «la mia razza ha, in questo momento, un vantaggio. Siamo venuti a bordo della vostra nave dentro tute spaziali alimentate dall'energia atomica! Prima di partire abbiamo modificato i propulsori: siamo in grado di far scoppiare cinque chilogrammi di combustibile nucleare a testa, qui, dentro questa nave, e se fosse impossibile per noi farli esplodere personalmente, ciò può esser fatto con un comando a distanza dalla nostra nave! E sarebbe davvero sorprendente se l'intera vostra riserva di combustibile non saltasse con noi! In altre parole, se non accetterete la mia proposta, un approccio al problema basato sul buonsenso, Dort ed io salteremo in aria in un'esplosione atomica, e la vostra nave, anche se non sarà del tutto distrutta, verrà come minimo ridotta a un relitto... e la Llanvabon attaccherà con tutto ciò di cui dispone meno di due secondi dopo l'esplosione!»

Nella cabina del capitano della nave aliena la scena acquistò un sapore ancor più surreale agli occhi dei due terrestri, con la sua illuminazione rosso-cupa e gli alieni calvi, che respiravano con le branchie, i quali fissavano il comandante e aspettavano la traduzione dell'arringa per loro inaudibile. La tensione crebbe all'improvviso, in un misto di furia e di stanchezza. Il comandante alieno fece un gesto. Gli auricolari dei caschi ronzarono.

«Signore», li informò il tecnico a bordo della Llanvabon,«il comandante alieno vuol sapere qual è la sua proposta».

«Scambiarci le navi!» ruggì il comandante terrestre. «Scambiarci le navi e tornare tutti a casa! Noi possiamo sistemare i nostri strumenti cosicché gli alieni non possano seguirci, e loro possono far lo stesso con gli strumenti a bordo di questa nave. Entrambi asporteremo tutte le mappe stellari e ogni altro tipo di registrazione. Smantelleremo entrambi le nostre armi. Tutte e due le atmosfere sono respirabili sia da noi che da loro, noi prenderemo la loro nave, e gli alieni la nostra, nessuno dei due potrà danneggiare o seguire l'altro, e ognuno porterà con sé a casa più informazioni di quante avrebbe potuto portarne in qualunque altro modo! E possiamo sempre scegliere entrambi questa stessa Nebulosa del Granchio come il luogo del prossimo appuntamento quando la stella doppia avrà compiuto un altro giro completo... così, se la nostra gente vorrà incontrarli, potrà farlo, e se avrà paura, potrà evitarlo... e lo stesso vale per loro. Questa è la mia proposta. E lui dovrà accettarla, altrimenti Dort ed io faremo saltare la sua nave e la Llanvabon ridurrà in briciole quel che ne resterà!»

Lanciò occhiate minacciose tutt'intorno mentre aspettava che la traduzione raggiungesse quelle basse figure, frementi e tese, tutt'intorno a lui. Seppe quando il messaggio arrivò, poiché la tensione cambiò. Le figure si agitarono, gesticolarono. Una di esse si esibì in una serie di movimenti convulsi, si lasciò cadere sul pavimento e cominciò a scalciare. Altre si appoggiarono alle pareti in preda a un tremito convulso. La voce negli auricolari di Tommy Dort, che fino a quel momento si era mantenuta su una gelida impersonalità, ora suonò sbigottita:

«Signore, ha detto che questo è un bellissimo scherzo, giacché i due membri dell'equipaggio che ha mandato sulla nostra nave, accanto ai quali siete passati venendo qui, hanno anch'essi le tute spaziali imbottite di esplosivo atomico, signore. Lui aveva intenzione di farci l'identica offerta, con le identiche minacce! Naturalmente accetta, signore. La Llanvabon vale per lui più della sua nave, come per lei la sua nave vale più della Llanvabon. A quanto pare, signore, è affare fatto».

Fu allora che Tommy Dort capi cos'erano i movimenti convulsi degli alieni. Erano risate.

 

Non fu così semplice come il comandante l'aveva descritto. L'attuazione pratica della proposta si rivelò assai complessa. Per tre giorni gli equipaggi delle due navi si mescolarono insieme: gli alieni per imparare il funzionamento dei motori della Llanvabon,e gli umani per imparare il funzionamento dei motori della nave nera. Era un bello scherzo... ma non era soltanto uno scherzo. C'erano ad ogni istante uomini sulla nave nera, e alieni sulla Llanvabon,pronti, al minimo preavviso, a far saltare la nave avversaria. E l'avrebbero fatto senza pensarci due volte, in caso di necessità. Per questo, la necessità non si presentò. Infine, tutta la bontà di questo accordo ebbe a manifestarsi, concedendo a due spedizioni di far ritorno a due civiltà, piuttosto che facesse ritorno o l'una o l'altra soltanto.

Non si riuscì ad evitare che insorgessero disaccordi. Vi furono discussioni circa il trasferimento di questo o quel documento. Nella maggior parte dei casi il problema fu risolto con la distruzione del documento in questione. Altri problemi furono causati dai libri di narrativa a bordo della Llanvabon,e dall'equivalente alieno d'una biblioteca di bordo, che conteneva opere che si avvicinavano ai romanzi della Terra. Ma erano oggetti preziosi per una possibile amicizia, poiché avrebbero mostrato gli aspetti più intimi di ognuna delle due culture all'altra, il punto di vista della gente comune delle due razze, senza l'ufficialità della retorica e della propaganda. E furono lasciati ai loro posti.

Ma durante quei tre giorni i nervi rimasero comunque a fior di pelle. Gli alieni scaricarono e ispezionarono i viveri che gli uomini avrebbero consumato a bordo della nave nera. A loro volta gli uomini trasferirono dalla nave nera i viveri di cui gli alieni avrebbero avuto bisogno nel loro ritorno a casa. C'erano altri particolari interminabili, dallo scambio dei sistemi d'illuminazione, poiché ognuno dei due equipaggi doveva disporre di quello più adatto ai suoi occhi, fino a un ultimo, dettagliato controllo dei più diversi macchinari. Un gruppo misto d'ispezione, composto da qualificati rappresentanti di ambedue le razze, controllò che tutti i dispositivi d'individuazione fossero stati fracassati (e non rimossi), cosicché nessuna delle due navi potesse usarli per seguire le tracce dell'altra. E naturalmente gli alieni erano ansiosi di non lasciare nessun'arma funzionante sulla nave nera, allo stesso modo in cui gli umani non volevano lasciarne sulla Llanvabon. Era un fatto curioso come ognuno dei due equipaggi mostrasse la massima competenza ed efficacia nel prendere le misure che avrebbero reso impossibile una violazione dell'accordo all'altro.

Vi fu una conferenza finale prima che le due navi si separassero, nella cabina di comunicazione della Llanvabon.

«Di' a quel tappetto», brontolò l'ex comandante della Llanvabon,«che ha per le mani un'ottima nave e che farà meglio a trattarla bene».

Le schede-parola presero subito a piovere nel riquadro dei messaggi del decodificatore: «Può star certo», fu il messaggio di risposta del comandante alieno, «che quella che adesso è la sua nave è altrettanto buona. Spero d'incontrarvi qui quando la stella doppia avrà fatto un giro completo».

L'ultimo degli umani lasciò infine la Llanvabon. Questa si allontanò e scomparve in mezzo alla nebulosità prima che avessero fatto ritorno alla nave nera. Le piastre visive del vascello alieno erano state modificate, per adattarle agli occhi umani, e l'equipaggio umano frugò il cielo con una punta di nostalgia alla ricerca della Llanvabon mentre la loro nuova nave sceglieva una fulminea rotta evasiva verso i bordi esterni della nebulosa. Sbucò dentro un crepaccio di vuoto assoluto che conduceva fuori, alle stelle. Infine balzò fuori nello spazio aperto. Per un attimo provarono quell'arresto della respirazione che viene provocato dall'attivazione del campo d'iperpropulsione, e la nave sfrecciò attraverso il vuoto a molte volte la velocità della luce.

Molti giorni più tardi il comandante vide Tommy che stava studiando uno di quegli strani oggetti che equivalevano a libri. Era affascinante scervellarsi sopra. Il comandante era soddisfatto con se stesso. I tecnici dell'ex equipaggio della Llanvabon stavano scoprendo quasi in continuazione cose assai interessanti, per non dire preziose, in quella nave. Senza alcun dubbio, gli alieni dovevano essere altrettanto soddisfatti delle scoperte che stavano compiendo a bordo della Llanvabon. Ma, in ogni caso, La nave nera si stava rivelando una miniera inesauribile d'informazioni — perfino nelle tecniche di combattimento, in cui i terrestri, fino a poco prima, si erano ritenuti senz'altro superiori.

«Uhmmm, signor Dort», disse scandendo le parole. «Lei non dispone più di nessuna attrezzatura per realizzare un'altra serie di registrazioni fotografiche durante il viaggio di ritorno. È rimasta a bordo della Llanvabon. Ma per fortuna abbiamo con noi le registrazioni fatte durante il viaggio d'andata... ed io farò un rapporto assai favorevole sul suo suggerimento e sulla sua assistenza nel metterlo in pratica. La tengo in altissima considerazione, signore».

«Grazie, signore», rispose Tommy Dort.

Aspettò. Il comandante si schiari la gola.

«Lei... ehm... si è reso conto per primo dell'intima somiglianza dei processi mentali nostri e degli alieni», osservò. «Cosa pensa della prospettiva d'un accordo amichevole, se ci presenteremo all'appuntamento che abbiamo con loro, nella nebulosa, come abbiamo concordato?»

«Oh, andremo benissimo d'accordo, signore», replicò Tommy. «Questo nostro primo incontro è stato un buon passo verso l'amicizia. E, dopotutto, poiché essi vedono attraverso l'infrarosso, i pianeti che possono usare non sono adatti a noi, e viceversa. Non c'è motivo per cui non dovremmo andar d'accordo. Come psicologia siamo quasi uguali».

«Uhmmmm... Adesso, cosa intende dire con questo?» chiese il comandante.

«Ma si, sono proprio come noi, signore!» esclamò Tommy. «Sì, respirano attraverso le branchie e vedono grazie alle radiazioni termiche, e il loro sangue ha enzimi a base di rame invece che di ferro, e c'è qualche altra piccola differenza di questo tipo. Ma per il resto siamo proprio uguali! C'erano soltanto uomini nel loro equipaggio, signore, ma hanno due sessi come noi, hanno famiglia, e... ehm... il loro senso dell'umorismo... Infatti...»

Tommy esitò.

«Vada avanti, signore», lo sollecitò il comandante.

«Già... Ce n'era uno che avevo chiamato Daino, signore, poiché non aveva un nome che si potesse tradurre in onde sonore», spiegò Tommy. «Siamo andati d'accordo quasi subito, e bene. Potrei senz'altro dire che eravamo amici, signore. E siamo stati insieme un paio d'ore prima che le navi si separassero, poiché non avevamo niente di particolare da fare. Così, mi sono convinto che gli umani e quegli alieni sono destinati a diventare buoni amici, se verrà data alle due razze anche una mezza possibilità. Vede, signore, abbiamo passato quelle due ore a raccontarci barzellette sporche».

 

Venusiani addio

The Vanishing Venusians

di Leigh Brackett

Planet Stories, Primavera

 

Una delle ragioni per cui molta fantascienza dell'era dei pulp è diventata oggi illeggibile risiede nel fatto che le nuove scoperte scientifiche hanno invalidato non poche delle fondamentali premesse sulle quali queste storie erano basate. Ciò è soprattutto vero per l'astronomia: oggi noi sappiamo cosa c'è sull'altra faccia della luna e abbiamo appoggiato piedi e occhi meccanici sulla superficie di Marte. Inoltre conosciamo parecchio su Venere... quanto basta per invalidare del tutto l'ambientazione di «Venusiani addio»: non ci sono distese d'acqua e meno ancora venusiani che ci nuotano dentro.

Ma «Venusiani addio» appartiene di diritto a questa antologia per il suo colore, la sua forte caratterizzazione, e l'avventura: tutte caratteristiche eminenti dell'opera della sua autrice, la scomparsa e rimpianta Leigh Brackett, stella di prima grandezza, ed essenza stessa del meglio di Planet Stories degli anni Quaranta.

 

(Marty ha accennato al fatto che Venere non possiede distese d'acqua o di qualsivoglia altro liquido e che nessun venusiano ci nuota dentro. Nella realtà, Venere è ancora peggiore. Ha una temperatura considerevolmente più alta del punto di fusione del piombo, sia all'equatore che ai poli, di giorno come di notte. Ha un'atmosfera novanta volte più densa di quella terrestre, che consiste quasi del tutto di anidride carbonica. Le sue nubi sono di acido solforico. A meno che la nostra tecnologia non progredisca al punto da consentirci di modificare drasticamente le caratteristiche dell'atmosfera di Venere, e d'importarci acqua, gli esseri umani non potranno mai colonizzare quel pianeta, anzi, non potranno neppure metterci i piedi. E questo è davvero un peccato. Fra tutti i pianeti dell'astronomia prespaziale Venere era il più interessante. Che magnifiche storie ci ha dato quel mondo, che s'immaginava lussureggiante, primitivo, brulicante di vita. E se n'è andato — andato per sempre e ci ha lasciato al suo posto una palla di roccia rovente, completamente spoglia.

Eppure, fintanto che le storie di fantascienza del passato saranno ancora con noi, come lo è Leigh, il suo ricordo rimarrà incancellato. I.A.)

 

1

 

La brezza soffiava costante, ma non impetuosa. Gonfiava la vela al quarto quel tanto che bastava a spingere attraverso l'acqua lo scafo sudicio e coperto d'alghe troppo cresciute... non di più. Matt Harker era disteso accanto alla barra del timone e contava i rivoli di sudore che colavano sulla sua nudità e fissava con occhi cupi, e opachi, la notte color indaco. La rabbia, incatenata e impotente,  crebbe nella sua gola come vomito amaro.

Il mare — la moglie venusiana di Rory McLaren lo chiamava il Mare degli Opali Mattutini — si stendeva immoto, nero, rigato dalla fosforescenza. Il cielo gravava basso sul mare, la densa coltre di nubi di Venere che aveva fatto del Sole una leggenda a stento ricordata dagli esiliati della Terra. Luci ardenti cavalcavano nell'oscurità blu profondo, disposte in fila. Dodici navi, tremilaottocento persone, che non andavano da nessuna parte, intrappolate nell'intervallo fra la nascita e la morte, e che non sapevano proprio che farne.

Matt Harker gettò uno sguardo alla vela e poi alla lanterna di poppa della nave che li precedeva. Il suo volto, al fioco bagliore che illuminava Venere perfino di notte, era oblungo e scarno, una successione d'ombre e di scabre prominenze ossee, coperto dalle cicatrici della vita, del bisogno e delle privazioni, della morte e dell'assenza di morte. Era un uomo magro, non alto di statura, tenace, con un'agilità da rettile nei movimenti.

Qualcuno scivolò silenzioso attraverso il ponte, da prua, evitando i corpi addormentati accalcati dovunque. Harker disse, senza emozione: «Ciao, Rory».

Rory McLaren rispose: «Ciao, Matt». Si sedette. Era giovane, forse la metà degli anni di Harker. C'era ancora speranza sul suo viso, ma già mostrava i segni della fatica. Restò seduta un po', senza parlare, né guardare, poi disse: «In tutta franchezza, Matt, quanto tempo possiamo resistere ancora?»

«Cosa c'è, ragazzo? Cominci a cedere?»

«Non so. Forse. Quando ci fermeremo da qualche parte?»

«Quando troveremo un posto dove fermarci».

«C'è forse un posto dove fermarsi? Mi pare che da quando sono nato, non abbiamo fatto altro che cercarlo. C'è sempre qualcosa che non va. Indigeni ostili, o la febbre, o il terreno cattivo... sempre qualcosa, e noi ci rimettiamo in viaggio. Non è giusto. Non è affatto questo il modo per cercar di vivere».

Harker replicò: «Te l'avevo detto di non ostinarti ad aver figli».

«E questo cosa c'entra?»

«Stai già cominciando a preoccuparti. Il piccolo non è ancora arrivato, e tu già ti preoccupi».

«Certo che mi preoccupo». McLaren si prese all'improvviso la testa fra le mani e imprecò. Harker seppe che l'aveva fatto per impedirsi di piangere.

«Sono preoccupato», ammise McLaren. «Forse, a mia moglie e a mio figlio capiterà la stessa cosa che è successa ai tuoi. Abbiamo la febbre a bordo».

Per un attimo gli occhi di Harker arsero come carboni. Poi, alzò lo sguardo alla vela e disse: «Starebbero meglio morti».

«Non son cose da dire!»

«È la verità. Tu mi hai chiesto quando ci fermeremo... quando avremo trovato il posto giusto. Forse mai. Tu ti lagni di aver fatto questa vita da quando sei nato. Be', io ho dovuto farla da molto più tempo. Prima che tu nascessi, ho visto coi miei occhi il nostro primo insediamento incendiato dal Popolo della Nube, e mia madre e mio padre crocifissi nella loro vigna. Ero fra quelli partiti dalla Terra, quando iniziò questo viaggio alla Terra Promessa, e sto ancora aspettando di vederla».

I tendini sul volto di Harker si erano tesi come cavi d'acciaio. La sua voce aveva una calma terribile.

«Tua moglie e tuo figlio starebbero assai meglio se morissero adesso, subito. Così, Viki che è giovane e ha ancora speranza, non la perderà mai. E il bambino non aprirà mai gli occhi su questa vita grama».

 

Sim, un uomo nero, grande e grosso, diede il cambio ad Harker prima dell'alba. Iniziò a cantare sommesso, qualcosa di lento e lamentoso come la brezza, e assai bello. Harker gli lanciò una maledizione e salì dentro prua per dormire, ma la canzone continuò ad accompagnarlo. Oh, ho guardato il Giordano, e cos'ho visto arrivare per portarmi a casa...

Harker si addormentò, infine. Cominciò a gemere e a contorcersi, e ad urlare. Gli altri intorno a lui si svegliarono. Lo fissarono pieni di curiosità. Da sveglio, Harker era un lupo solitario, violento e sempre di pessimo umore. Quando, a lunghi intervalli, era colto da uno dei suoi attacchi, nessuno era particolarmente desideroso di aiutarlo a uscirne. Provavano una sorta di perverso piacere a potergli sbirciare nell'intimo, quando lo coglievano così allo scoperto.

Ad Harker non importava. Stava di nuovo giocando in mezzo alla neve: aveva sette anni, e i cumuli erano bianchi e alti nel cielo, un cielo così azzurro e pulito che il bambino si chiedeva se Dio non facesse anche lui le pulizie ogni due o tre giorni, come la mamma quando sfregava energicamente il pavimento in cucina. Il sole splendeva. Era come una grande moneta d'oro, e traeva infiniti barbagli dalla neve trasformandola in uno spolverio di diamanti. Alzò le braccia verso il sole, e l'aria fredda lo schiaffeggiò come due mani pulite, e lui scoppiò a ridere. E poi ogni cosa scomparve..."

«Mio Dio», disse qualcuno, «ma quelle sul suo viso non sono lagrime?»

«Strilla... Strilla come un bambino, non sentite?»

«Ehi», disse ancora il primo, impacciato, «non credete che dovremmo svegliarlo?»

«Al diavolo quel vecchio gattaccio inacidito. Ehi, ascoltate...»

«Papà», bisbigliò Harker, «papà, voglio tornare a casa».

 

L'alba arrivò come una manciata di opali di fuoco attraverso le nubi di un grigio perlaceo. Harker, nel sonno, udì il grido fioco e lontano. Si sentiva stordito, stanco, le palpebre gli si erano come incollate insieme. Il grido a poco a poco acquistò forma e divenne la parola «Terra!» ripetuta più volte.

Harker si scosse per svegliarsi e si alzò in piedi.

Il mare privo di maree rifletteva i colori opalini, sotto la foschia. Branchi di piccoli draghi marini, le scaglie simili a gioielli, s'innalzavano dalle onnipresenti isole galeggianti d'alghe, e le alghe stesse, o almeno una parte di esse, si agitarono, pulsando d'una vita senziente.

Davanti a loro una lunga e bassa prominenza della costa si dilatava nell'inestricabile groviglio d'una palude. Oltre la bassa distesa paludosa, si innalzava a picco fino alle nubi una scogliera di granito, una scarpata maestosa che si drizzava come una muraglia davanti agli sguardi colmi di speranza degli esuli.

Harker trovò Rory McLaren ritto in piedi, lì accanto, il braccio avvolto intorno a Viki, sua moglie. Viki era una delle molte venusiane che avevano sposato coloni terrestri. La sua pelle era bianca come il latte, i suoi capelli d'un vivido argento, le sue labbra scarlatte. I suoi occhi erano come il mare, mutevoli, pieni di vita nascosta. In quel momento avevano quella particolare espressione che gli occhi delle donne assumono quando pensano alla vita, al suo inarrestabile perpetuarsi... Harker distolse lo sguardo da lei.

McLaren disse: «Sì, è terra».

Harker ribatté: «È fango. È una palude... la febbre. È identica al resto».

Viki disse: «Non possiamo fermarci qui, solo un po'?»

Harker scrollò le spalle. «Spetta a Gibbons decidere». Stava impulsivamente per chiederle quale dannata differenza facesse dove sarebbe nato il bambino, ma per una volta tenne la lingua a freno. Viki si allontanò. In qualche punto della parte centrale della nave una donna gridò nel delirio. C'erano tre forme immote, avvolte in coperte a brandelli e distese sul tavolato accanto agli ombrinali.

«È probabile che ci fermeremo quel tanto che basterà a seppellirli», disse. «Forse... sarà sufficiente».

Guardò per un attimo il volto di McLaren. La speranza che l'aveva illuminato poco prima aveva lasciato il posto alla stanchezza. Era morta. Morta come il resto di Venere.

Gibbons chiamò i capi a bordo della sua nave: i condottieri, i combattenti, i cacciatori e i marinai, gli uomini duri e coriacei che costituivano la dura corazza intorno al corpo molle della colonia. C'erano anche Harker e McLaren. McLaren era giovane e fino a poco tempo prima aveva avuto la qualità dell'ottimismo che incoraggiava i suoi compagni di nave, una naturale inclinazione a guidare gli uomini.

Gibbons era vecchio. Era lo spirito-guida originario dei cinquemila coloni che erano venuti dalla Terra per ricominciare a vivere sul nuovo mondo. Il tempo e le tragedie, le delusioni e i tradimenti l'avevano crudelmente segnato, ma teneva ancora la testa alta. Harker ammirava il suo coraggio, pur maledicendolo come pazzo idealista.

Com'era inevitabile, cominciarono a discutere se dovessero o no tentare un insediamento permanente su quella distesa di fango, oppure continuare a vagare su quel mare inesplorato e interminabile.

Harker dichiarò, impaziente: «Perbacco, ma guardate il posto! Ricordatevi dell'ultima volta. Ricordatevi della volta prima dell'ultima, e smettetela di blaterare».

Sim, il grande uomo nero, replicò con calma: «La gente comincia ad essere tremendamente stanca. L'uomo è nato per aver radici da qualche parte. Avremo ben presto dei guai se non troveremo un pezzo di terra».

Harker sbottò: «Se pensi di poterlo trovare, amico, allora fallo».

Gibbons disse in tono grave: «Ma Sim ha ragione... C'è isterismo, tra noi, febbre, dissenteria e noia, e la noia è la cosa peggiore di tutte».

McLaren esclamò: «Io voto perché ci stabiliamo qui».

Harker scoppiò a ridere. Era appoggiato al portello della cabina e fissava la scogliera, là fuori. Il granito grigio s'innalzava pulito sopra la palude. Harker cercò di penetrare le nubi che ne nascondevano la sommità, ma non ci riuscì. Socchiuse gli occhi. Le voci eccitate dietro di lui si smorzarono un po' per volta. D'improvviso, si girò verso Gibbons e disse: «Signore, vorrei che mi venisse dato il permesso di vedere cosa c'è in cima a quella scogliera».

Seguì un completo silenzio. Poi Gibbons lo ruppe, scandendo le parole: «Abbiamo perso troppi uomini in esplorazioni del genere, e questo soltanto per scoprire un altopiano inabitabile».

«C'è sempre una possibilità. Il nostro primo insediamento era sugli altipiani, non ricorda? Aria pulita, terreno buono, niente febbre».

«Ricordo», annuì Gibbons. «Sì, ricordo...». Restò silenzioso per un po', poi lanciò ad Harker un'occhiata d'intesa. «Ti conosco, Matt. Tanto vale che ti dia il permesso».

Harker sogghignò. «In tutti i casi non sentirete troppo la mia mancanza. Non rappresento più una buona influenza sugli altri». Si avviò verso l'uscita. «Datemi tre settimane. In ogni caso, è tempo che vi mettiate a raschiare e a rattoppare la chiglia delle navi. Forse tornerò con qualcosa di concreto».

McLaren interloquì: «Vengo con te, Matt».

Harker lo fissò senza scomporsi. «Tu farai meglio a restare con Viki».

«Se c'è del buon terreno, là sopra, e dovesse capitarti qualche guaio che t'impedisce di tornare indietro a dircelo...»

«O che non avessi più voglia di tornare indietro, forse?»

«Non ho detto questo. Potremmo anche non farcela tutti e due a tornare. Ma due... è sempre meglio di uno».

Harker sorrise. Un sorriso enigmatico e non molto piacevole. Gibbons s'intromise: «Ha ragione lui, Matt». Harker scrollò le spalle. Poi Sim si alzò in piedi.

«Due va bene», dichiarò, «ma tre è meglio ancora». Si rivolse a Gibbons: «Siamo quasi in cinquecento, signore. Se lassù c'è una nuova terra, dovremo dividere la fatica di trovarla».

Gibbons annui. Harker ribatté: «Sei matto, Sim. Perché vuoi farti tutta quella scalata, magari per non arrivare da nessuna parte?»

Sim sorrise. I suoi denti spiccarono incredibilmente bianchi sul nero lucido di sudore del suo viso. «Ma è quello che la mia gente ha sempre fatto, Matt. Un sacco di scalate per non arrivare in nessun posto».

Fecero i loro preparativi e si dedicarono a un'ultima notte di sonno. McLaren salutò Viki. La donna non pianse. Sapeva perché lui partiva. Lo baciò; tutto quello che gli disse, fu: «Stai attento». Tutto ciò che Rory disse, fu: «Tornerò prima che lui nasca».

Si misero in viaggio all'alba, portando con sé pesce secco e frutti di mare trasformati in strisce di carne essicata, e i loro lunghi coltelli e le corde per la scalata. Da molto tempo avevano finito ie munizioni per i pochi fulminatori di cui disponevano, e non avevano le attrezzature per produrne altre. Tutti erano assai esperti con le lance, e ne portavano tre, appese alla schiena, corte e munite di spine confezionate con ossa.

Quando attraversarono il tratto fangoso, pianeggiante, pioveva, e dovettero guardarlo affondando fino alle cosce nella nebbia fitta. Harker li guidò attraverso la cintura paludosa. Era un veterano in queste imprese, con una rapidità soprannaturale nell'individuare quella vegetazione che era viva, indipendente e affamata quanto lui. Venere è un'immensa serra, e le piante si sono sviluppate in innumerevoli specie, strane e fantastiche, almeno quanto i rettili e i mammiferi, capaci di strisciar fuori da quei mari pre-cambriani simili a primitivi flagellati, per sviluppare poi una propria volontà, con appetiti e motivazioni in proporzione. I bambini dei coloni imparavano sin dalla più tenera infanzia a non coglier fiori. Troppo spesso i germogli rispondevano a morsi.

La palude non si estendeva per molto, e ne uscirono sani e salvi. Un grande drago delle paludi, un leshen,urlò non molto lontano, ma era un cacciatore notturno e adesso era troppo pieno di sonno per dar loro la caccia. Infine, Harker mise il piede sul terreno solido, e si mise a studiare la scogliera.

La roccia era stata resa ruvida dalle intemperie, incisa da molti millenni d'erosione, e per di più squassata dai terremoti. C'erano tratti di scisti crollati e frantumati, grandi lastre che parevano sul punto di precipitare al solo sfiorarle, ma Harker annuì. «Possiamo arrampicarci», dichiarò. «Il problema è: quant'è alto, lassù in alto?»

Sim scoppiò a ridere. «Forse alto abbastanza per la città d'oro. Abbiamo tutti la coscienza pulita? Non posso portare il peso del peccato così lontano!»

Rory McLaren guardò Harker.

Harker disse: «D'accordo, lo confesso. Non m'importa affatto se lassù c'è o no una buona terra per noi. Tutto quello che volevo era andarmene via da quella stramaledetta nave prima di perdere del tutto la testa. Così, adesso lo sapete».

McLaren annuì. Non parve sorpreso. «Arrampichiamoci». Il mattino del secondo giorno giunsero in mezzo alle nubi. Salirono sempre più in alto strisciando attraverso un vapore semiliquido, dalle sfumature opaline, insopportabilmente caldo. Continuarono a salire strisciando per altri due giorni. Per le prime notti Sim cantò durante il suo turno di guardia, mentre gli altri due riposavano distesi su qualche cengia. Dopo, però, anche Sim fu troppo stanco.

McLaren cominciò a cedere, anche se non lo disse. Matt Harker divenne più taciturno e il suo umore peggiorò ancora, se ciò era possibile, ma per il resto non ci furono cambiamenti. Le nuvole continuavano a nascondere la sommità dello strapiombo.

Durante uno dei brevi riposi, McLaren disse con voce rauca: «Ma questa scogliera non finisce mai?» La sua pelle era giallognola, gli occhi vitrei per la febbre.

«Forse», rispose Harker, «salgono dritte al di là del cielo». La febbre era tornata a cogliere anche lui. Essa viveva nel midollo degli esuli, riaffiorando a intervalli per scuoterli e bruciarli, per poi ritirarsi. A volte non si ritirava, e dopo nove giorni non aveva più bisogno di farlo.

McLaren disse: «Non te ne importerebbe niente se fosse così, vero?»

«Non ti ho chiesto io di venire».

«Ma non te ne importerebbe».

«Ah, chiudi il becco».

McLaren si lanciò alla gola di Harker.

Harker lo colpi, con calma e precisione. McLaren si accasciò al suolo, si afferrò la testa fra le mani e pianse. Sim si tenne fuori dalla zuffa. Scosse la testa, e dopo un po' cominciò a canticchiare fra sé... o rivolgendosi a qualcuno al di là di lui stesso. «Oh, nessuno capisce questo problema, come io lo vedo...»

Harker si alzò in piedi. Le orecchie gli rintronavano e tremava in modo incontrollato, ma riuscì ugualmente a prendere su di sé un po' del peso di McLaren. Stavano risalendo una cengia obliqua, abbastanza larga e non troppo difficile.

«Andiamo avanti», sollecitò Harker.

Una sessantina di metri oltre quel punto la cengia piegava bruscamente verso il basso, in una sorta di gradinata rotta e accidentata. Sopra le loro teste la parete della scogliera si rigonfiava verso l'esterno. Soltanto una mosca avrebbe potuto scalarla. Si fermarono. Harker si esibì in una lenta e ragionata serie d'imprecazioni. Sim chiuse gli occhi e sorrise. Anche lui era un po' ammattito a causa della febbre.

«C'è la città d'oro lassù in cima. È là che sto andando».

S'incamminò lungo la cengia, seguendo la sua pendenza fino a una gobba rocciosa, oltre la quale scomparve. Harker rise sardonico. McLaren si liberò dalla stretta e testardamente seguì la strada di Sim. Harker scrollò le spalle e lo imitò.

Subito oltre la gobba la cengia finiva.

Rimasero immobili. Le dense nubi di vapore li bloccavano su un lato, e sull'altro s'innalzava una parte di granito sulla quale erano appesi dei rampicanti carnosi.

Vicolo cieco.

«Allora?» fece Harker.

McLaren si sedette. Non pianse né disse niente. Si limitò a restar seduto. Sim era là, in piedi, le braccia penzoloni e il mento appoggiato sull'ampio petto nero. Harker disse ancora: «Capisci cosa voglio dire quando rido, se sento parlare di Terra Promessa? Venere è una roulette truccata. Non potrai mai vincere».

Fu allora che si accorse dell'aria fresca. Aveva creduto, sulle prime, che fosse soltanto il brivido della febbre, ma la brezza gli scompigliava i capelli e avvolgeva il suo corpo secondo una direzione ben precisa. Aveva perfino un odore fresco e pulito. Soffiava attraverso la coltre dei rampicanti.

Harker cominciò a scavare col suo coltello. Scopri che quella era la imboccatura d'una caverna, uno squarcio frastagliato, lisciato sul fondo da quello che un tempo doveva essere stato un fiume.

«La corrente d'aria arrivava dalla sommità dell'altopiano», disse Harker. «Lassù deve soffiare il vento che la spinge in basso. Potrebbe esserci il modo di passare».

McLaren e Sim mostrarono entrambi un lento e terribile rifiorire della speranza. Tutti e tre entrarono senza parlare nella galleria.

 

2

 

Proseguirono veloci. L'aria pulita agiva su di loro come un tonico, e la speranza li stimolava. La galleria saliva seguendo un'inclinazione piuttosto ripida, e poco dopo Harker udì uno scroscio d'acqua, un mormorio sordo e tonante, come un fiume sotterraneo che scorresse davanti a loro, a un livello più alto. L'oscurità era totale, ma non era difficile seguire quel liscio canale di pietra.

Sim disse: «Quella lì davanti, non è luce?»

«Si», annui Harker, «una specie di fosforescenza. Non mi piace quel fiume lì davanti a noi. Potrebbe bloccarci».

Avanzarono in silenzio. La luminiscenza si fece via via più intensa, l'aria più umida. Chiazze di licheni fosforescenti comparvero sulle pareti, luccicando come fiochi gioielli in un caleidoscopio di colori malaticci. Il ruggito dell'acqua si era fatto assordante. Vi capitarono davanti all'improvviso. L'acqua scorreva di traverso alla galleria, in un ampio canale scavato in profondità nella roccia, cosicché il suo livello era sceso al di sotto dell'antico letto, lasciando asciutta la galleria. Era un ampio fiume, lento e maestoso. I licheni ornavano il soffitto e ie pareti, riflettendosi in opachi luccichii sulla superficie dell'acqua.

Sopra le loro teste s'innalzava un nero camino attraverso la roccia, e la corrente d'aria fresca scendeva da li, quasi con la forza d'un uragano, ma la maggior parte di essa si dissipava nella galleria del fiume. Harker giudicò che dovesse esserci una formazione di rupi, in superficie, che convogliava il vento verso il basso, come una sorta di sifone. Quel camino nella roccia era del tutto inaccessibile.

Harker disse: «Credo che dovremo risalire il corso del fiume». La roccia era abbastanza erosa da render possibile la cosa, mostrando ampie sporgenze a tutti i livelli.

McLaren obbiettó: «E se questo fiume non venisse dalla superficie? Se sgorgasse da una fonte sotterranea?»

«Rischierai il tuo collo», ribatté Harker. «Su, vieni».

S'incamminarono. Dopo un po', facendo capriole come focene nell'acqua nera, le creature dorate passarono nuotando, videro gli uomini e sempre nuotando tornarono indietro.

Non erano molto grandi. Fra tutte, la più grande aveva le dimensioni di un bambino di dodici anni. Il loro corpo era antropoide, ma adattato al nuoto con lucide membrane. Irradiavano una luminosità dorata, fosforescenti come i licheni, i loro occhi erano neri e senza palpebre, quasi un'unica, immensa pupilla. I loro volti erano incredibili. Seppur vagamente, ricordarono ad Harker le bocche di leone che crescevano sui prati in estate: teste e volti dei nuotatori erano identici, coperti di petali grondanti d'acqua che parevano dotati di movimenti indipendenti, come se fossero organi sensori e non soltanto decorazioni.

Harker esclamò: «Perbacco, cosa sono?»

«Sembrano fiori», disse McLaren.

«Assomigliano di più a dei pesci», osservò il negro.

Harker rise. «Scommetto che sono tutte e due le cose insieme. Scommetto che sono pianni,e anfibi per giunta». I coloni avevano abbreviato l'espressione piante-animali in piantani,e infine in pianni. «Ho visto creature, nelle paludi, non molto diverse da queste. Ma... caspita, guardateli: sembrano umani!»

«Hanno una forma quasi umana», fece McLaren, rabbrividendo, «e... vorrei che non ci guardassero così!»

Sim replicò: «Finché si limitano a guardarci, non ho intenzione di preoccuparmi...»

Ma non si limitarono a questo. Cominciarono a stringersi intorno agli uomini, nuotando controcorrente senza nessuno sforzo. Alcuni di loro cominciarono ad arrampicarsi fuori dell'acqua, su una bassa sporgenza. Erano agili e graziosi. C'era qualcosa di sgradevolmente infantile in loro. Erano quindici o venti, e ricordavano ad Harker una banda di giovani discoli: soltanto che lo scherzo, nell'insieme, dava una strana, inquietante sensazione di malignità senz'anima.

Harker fece strada ai compagni accelerando il passo sulla banchina rocciosa. Aveva estratto il pugnale e stringeva la corta lancia nella destra.

L'aspetto generale del fiume cambiò. Il letto si ampliò e in alto, davanti a loro, Harker vide che la galleria si allargava in un'ampia cavità in ombra, con l'acqua che vi formava un lago oscuro, riversandosi lentamente fuori da un basso e largo labbro roccioso. Qui altre di quelle strane creature fosforescenti, simili a bambini, stavano giocando. Subito si unirono ai loro compagni, serrando ancor più dappresso i tre uomini.

«Non mi piace», disse McLaren. «Se soltanto producessero un qualche suono, un...»

D'improvviso lo fecero. Una risatina acuta che suonava un insulto blasfemo a quella che avrebbe potuto emettere un bambino. I loro occhi luccicavano. Si lanciarono in avanti, correndo, grondanti d'acqua, lungo la riva rocciosa, protendendo fuori dall'acqua quelle che sembravano braccia per agguantare le caviglie degli uomini, mentre continuavano a ridere. All'interno del suo ventre duro e piatto, Harker sentì rivoltarglisi le budella.

McLaren gridò e scalciò. Un paio d'artigli, piccole cose spinose acuminate come aghi, gli stavano graffiando una caviglia. Sim trapassò un petto dorato con la sua lancia. Non avevano ossa. Il corpo era leggero e membranoso, e il sangue che ne gocciolò fuori era verdastro, appiccicoso, come la linfa d'una pianta. Harker rispedi dentro il fiume con un calcio due di quegli esseri, fece roteare la lancia come una mazza da baseball e ne sbalzò giù altri due dalla banchina rocciosa — erano incredibilmente leggeri — e urlò: «Lassù, su quella cengia in aito. Non credo possano arrampicarsi fin lassù».

Spinse McLaren davanti a sé e aiutò Sim in una breve scaramuccia di retroguardia, mentre si arrampicavano tutti e tre lungo un passaggio difficile. Giunto in cima, McLaren si rannicchiò, e scagliò pietre giù, verso gli aggressori. C'era una grande fessura che correva lungo tutto il soffitto della caverna, la cicatrice di qualche antico terremoto. Qualche istante dopo, un punto del costone smottò, producendo una piccola slavina.

«Su, basta», ansimò Harker. «Piantala prima di far crollare tutto il soffitto. Non possono seguirci quassù». I pianni erano attrezzati per nuotare, non per arrampicarsi. Artigliarono rabbiosamente la roccia, ma scivolarono e ricaddero all'indietro; infine, si ritirarono nell'acqua pieni di rancore. D'un tratto afferrarono il corpo esanime ancora con la lancia di Sim piantata attraverso, e lo divorarono, litigando ferocemente tra loro per i bocconi migliori. McLaren si sporse oltre la cengia e vomitò.

Anche Harker non si sentiva molto bene. Ma si rialzò in piedi e riprese ad arrampicarsi. Sim aiutò McLaren, la cui caviglia sanguinava parecchio.

Quell'alta cengia saliva a un forte angolo, correndo tutt'intorno alla parete della grande caverna occupata dal lago. Qui l'aria era più fresca e asciutta, e i licheni si diradavano sempre più, fino a svanire, lasciando ogni cosa nella più totale oscurità. Harker, a una svolta, cacciò un grido. A giudicare dall'eco, quella cavità era immensa.

Sotto, nell'acqua nera, i corpi dorati sfrecciavano come comete in un universo color ebano, scomparendo una dopo l'altra tutte nella stessa direzione. Harker avanzava tastando tutt'intorno a sé: la sua pelle fremeva per l'impulso nervoso del pericolo, la sensazione di qualcosa d'invisibile, innaturale e maligno.

Sim disse: «Ho sentito qualcosa».

Si arrestarono. L'aria cieca sapeva d'una intensa fragranza, piacevolmente aromatica... ma in qualche modo impura. L'acqua sospirava pigramente molto più in basso. In qualche punto davanti a loro si udiva lo sciabordio tranquillo d'una corrente: Harker giudicò che fosse quello il punto in cui il fiume penetrava nella caverna. Ma non erano questi i rumori sui quali Sim aveva richiamato la loro attenzione.

Il negro aveva inteso parlare del fruscio fremente che sembrava giungere da ogni punto della caverna. Ora la superficie del lago era costellata di chiazze colorate d'una vivida fosforescenza, che lasciavano dietro di sé scie impetuose. Le macchie crebbero rapidamente di numero, facendosi più vicine, e divennero tappeti di fiori, scarlatti, azzurri, dorati e purpurei. Ce n'erano interi campi galleggianti, rimorchiati sull'acqua da risplendenti nuotatori.

«Mio Dio», sillabò Harker, gli occhi sbarrati. «Quanto sono grandi?»

«Quel che basta a farne tre di me». Sim era un uomo grande e grosso. «Quelli piccoli, prima, erano davvero i bambini. Sono andati a chiamare i loro papà. Oh, Signore!»

I nuotatori erano assai simili alle creature più piccole che li avevano attaccati più in basso, salvo per le dimensioni gigantesche. Ma non erano pesanti, impacciati. Erano magnifici, agili di membra e leggeri. Le loro membrane si erano allargate in grandi ali lucenti, ogni nervatura terminava con un'estremità di fuoco. Soltanto le loro teste dorate, simili a bocche di leone, erano cambiate.

Avevano perso i petali. Le loro teste di adulti erano coronate da piatte escrescenze che avevano la bellezza velenosa e sordida dei funghi. E i loro volti erano in tutto umani.

Per la prima volta dai tempi dell'infanzia Harker si sentì raggelare.

I campi di fiori fiammeggianti furono riuniti insieme in un grande turbinio ai piedi della scogliera. I giganti dorati tutt'a un tratto si misero a gridare, una sonora nota squillante, e l'acqua cominciò a ribollire, sollevando una schiuma avvampante quando a migliaia quei corpi simili a fiori ne uscirono e cominciarono ad arrampicarsi su per la roccia su lunghe zampe a ventosa, simili a quelle dei ragni.

Sembrava fosse del tutto inutile provarsi a fuggire, ma Harker li sollecitò: «Scappiamo via!» Adesso da quell'esercito là sotto s'irradiava luce sufficiente a illuminare il cammino davanti a loro. Harker cominciò a correre sulla sporgenza rocciosa con gli altri alle calcagna. I fiori che li inseguivano si arrampicavano veloci, mentre i loro padroni nuotavano comodamente più in basso, osservando la scena.

La sporgenza rocciosa curvò verso il basso. Harker schizzò lungo di essa come un cervo. Al di là del punto più basso, Harker si tuffò in una nuova galleria, quella da cui proveniva il fiume. Una breve galleria, alla cui estremità...

«La luce del giorno!» urlò Harker. «La luce del giorno!»

La gamba sanguinante di McLaren cedette e il giovane cadde al suolo.

Harker lo agguantò. Erano sul punto più basso della discesa. Le bestie-fiori erano subito sotto di loro e stavano ormai per raggiungerli. Il piede di McLaren era gonfio, il polpaccio esangue. Un'infezione dal fulmineo decorso dovuta agli artigli dei pianni. McLaren si dibatté nella stretta di Harker. «Vattene», lo sollecitò. «Corri, salvati!»

Harker lo colpi con forza alla tempia e ricominciò ad avanzare, trascinando con sé il corpo esanime del giovane. Ma vide che non avrebbe funzionato: McLaren pesava più di lui. Lo gettò tra le braccia possenti di Sim. Il grosso negro annui e continuò la corsa reggendo McLaren come un bambino. Harker vide i primi fiori salire sulla sporgenza rocciosa davanti a loro.

Sim li scagliò via: non erano molto grossi, e in quell'avanguardia erano soltanto in tre. Altri comparvero dietro di loro e si lanciarono all'inseguimento: Harker li colpi con la lancia, squarciandoli con gli uncini d'osso. Ma ormai erano in molti ad aver completato la scalata e li inseguirono come una grande onda di marea luminosa. Harker accelerò, ma i fiori erano più veloci. Li ricacciò indietro con la lancia e il coltello e riprese a correre, poi tornò a voltarsi per combattere ancora; quand'ebbero infine percorso tutta la galleria, Harker barcollava, stremato.

Sim si arrestò. Disse: «Non c'è via d'uscita».

Harker alzò lo sguardo: il fiume precipitava da una parete a picco: il salto era troppo alto, e il getto d'acqua aveva troppa forza perché anche i giganteschi pianni potessero pensare di affrontarlo. La luce del giorno si riversava su di loro dall'alto, calda e accogliente come avrebbe potuto esserlo su Marte.

Vicolo cieco.

Poi Harker individuò il piccolo canale eroso che saliva contorto su un lato. Era poco più di uno scolo, lungo e asciutto, e formava un passaggio fino alla sommità della cascata, una fessura a stento larga perché un uomo riuscisse a strisciarvi attraverso. Era una speranza fin troppo vaga, un azzardo, ma...

Harker l'indicò, fra una stoccata e l'altra contro i fiori che sciamavano dappertutto. Sim gridò: «Tu per primo». Harker, poiché era il miglior scalatore, obbedì, aiutando McLaren ancora intontito a salire dietro di lui. Sim maneggiava la lancia come un dardo fiammeggiante, proteggendo le loro spalle, strisciando all'insù un centimetro dopo l'altro.

Raggiunto un appoggio abbastanza sicuro, si fermò. Il suo petto gigantesco si gonfiava come un mantice, le sue braccia continuavano ad alzarsi e ad abbassarsi come sbarre d'ebano. Harker gli gridò di continuare a salire. Lui e McLaren erano quasi arrivati in cima.

Sim scoppiò a ridere: «Come intendi farmi passare attraverso quel buchetto?»

«Vieni su, pazzo!»

«Farete meglio a sbrigarvi. Io sono pressoché finito».

«Sim! Sim, dannazione a te!»

«Striscia fuori da quel buco, tappo, e tirati dietro quello spilungone! Io sono un uomo che ha le dimensioni di un uomo, e devo restar qui». Poi, infuriandosi: «Sbrigati, altrimenti ti trascineranno indietro prima che tu sia passato!»

Aveva ragione. Harker sapeva che aveva ragione. Si mise al lavoro spremendo McLaren attraverso la stretta apertura. McLaren era ancora intontito, ma era magro e con le ossa sottili, e ce la fece. Ruzzolò fuori su un pendio coperto d'erba verde, la prima che Harker vedeva dai giorni in cui era bambino.

Ora Harker si affannò per seguire McLaren. Non si voltò a guardare Sim.

L'uomo nero stava cantando tutta la gloria della venuta del Signore.

Harker tornò a infilare la testa nel buio dello stretto condotto: «Sim!»

«Sì?» Debole, rauco, echeggiante.

«Qui c'è terra, Sim. Una buona terra».

«Già».

«Sim, troveremo a tutti i costi il modo...»

Sim aveva ripreso a cantare. La sua voce si fece più fioca, allontanandosi sempre più verso il basso. Le parole si smarrirono, ma non ciò che sottintendevano. Matt Harker affondò il viso nell'erba verde, e la voce di Sim scomparve con lui nel buio.

Le nubi si stavano colorando dei bagliori del sole nascosto che tramontava. Erano sospese sopra di loro come un baldacchino d'oro intriso di sangue. Vi era un profondo silenzio, interrotto soltanto dal canto degli uccelli. Giù nei luoghi bassi non si udivano mai simili canti d'uccelli. Matt Harker ruotò su se stesso e lentamente si rizzò a sedere. Gli pareva di essere stato picchiato a sangue. Provava nausea e vergogna, e l'antica, micidiale collera era avvolta in strette spire intorno al suo cuore.

Davanti a lui si stendeva un ampio pendio erboso che arrivava fino al fiume, il cui corso curvava verso sinistra, allontanandosi fino a sparire dietro uno sperone roccioso. Oltre il pendio si stendeva un vasto terreno pianeggiante, e ancora più oltre una foresta d'alberi giganteschi. Parevano galleggiare in un alone color rame, le fronde scure dispiegate come ali e costellate di fiori. L'aria era fresca, senza alcun sentore di fango e di marcio. L'erba era abbondante, il suolo pulito e morbido.

Rory McLaren cacciò un gemito sommesso e Harker si voltò verso di lui. La gamba del giovane aveva un pessimo aspetto. McLaren era in preda a un crescente stordimento, la sua pelle era arrossata e arida. Harker imprecò a bassa voce, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto fare.

Si voltò indietro a guardare verso la pianura, e vide la ragazza.

Non sapeva come fosse arrivata li. Forse era sbucata fuori dai cespugli che crescevano in folte macchie qua e là sul pendio. Poteva esser lì da parecchio tempo, a osservarli. E anche adesso teneva il suo sguardo puntato su di loro, restando immobile a una dozzina di passi. Una grande farfalla scarlatta si teneva aggrappata alla sua spalla, muovendo le ali con pigra voluttuosità.

Pareva più una bambina che una donna. Era nuda, piccola di statura, deliziosamente snella. La sua pelle, sotto il biancore, aveva una lieve sfumatura verde. I suoi capelli, simili a foglie d'erba e raccolti in corte ciocche ricciute sulla testa, erano d'un azzurro cupo, e anche i suoi occhi erano azzurri, e strani.

Harker la fissò, e lei fissò lui, senza che nessuno dei due accennasse a muoversi. Un uccello dai vividi colori scese giù in picchiata e si librò per un attimo accanto alle sue labbra, accarezzandole col becco. Lei lo sfiorò con una carezza, e sorrise, ma non distolse gli occhi da Harker.

Harker si alzò in piedi, lentamente. La chiamò: «Ehi».

La ragazza non si mosse, né produsse alcun suono, ma tutt'a un tratto un paio di enormi uccelli con becco e artigli come quelli di un'aquila, e neri come il peccato, si tuffarono giù dal cielo e sfiorarono la testa di Harker con un sibilante fruscio, poi tornarono in alto e si misero a girare in cerchio.

Harker tornò a sedersi.

Gli strani occhi della ragazza si staccarono da lui, fissando la fenditura, più in alto sulla parete rocciosa, dalla quale era uscito. Le sue labbra non si mossero, ma la sua voce — o qualcosa del genere — gli parlò chiaramente dentro la testa:

«Sei venuto da... là». Quel conteneva una fremente carica di eccitazione, per niente piacevole.

«Harker replicò: «Sì. Telepate... uh?»

«Ma tu non sei...» L'immagine di alcuni nuotatori dorati si formò nella mente di Harker. Erano chiaramente riconoscibili, ma l'odio e la paura avevano spazzato via da essi ogni traccia di bellezza, lasciando soltanto l'orrore.

Harker disse: «No». Le spiegò cos'era successo a lui e a McLaren. Le parlò di Sim. Sapeva che lei stava ascoltando attenta la sua mente, saggiandola per controllare se diceva la verità. Ma non lo preoccupava ciò che lei vi avrebbe trovato.

«Il mio amico è ferito», le disse. «Abbiamo bisogno di un rifugio».

Per un po' non vi fu risposta. La ragazza era era tornata a fissarlo. Il suo volto, la forma e la struttura del suo corpo, i suoi capelli, e infine i suoi occhi. Non era mai stato guardato in quel modo prima di allora. Cominciò a sogghignare. Un sogghigno provocante del tipo «che tu sia dannata...», che arricchiva d'una luce e d'un fascino sorprendenti la sua personalità sardonica.

«Tesoro», le disse, «sei formidabile. Animale, vegetale o minerale?»

Lei drizzò la piccola testa rotonda con un guizzo per la sorpresa, e gli restituì, pronta, la stessa domanda. Harker scoppiò a ridere. Lei sorrise, piegando la bocca in una V invitante, e i suoi occhi scintillavano vividi. Harker accennò a muoversi verso di lei.

E nell'identico istante i due rapaci lo ammonirono a tornare indietro. La ragazza scoppiò a ridere, un'increspatura d'allegria sbarazzina. «Vieni», lo invitò, e si voltò.

Harker si accigliò. Si chinò e parlò a McLaren con insolita gentilezza. Riuscì in tal modo a convincere il giovane a rizzarsi in piedi, poi se lo caricò sulle spalle, vacillando un poco sotto il suo peso. McLaren parlò, staccando le sillabe: «Sarò di ritorno prima che nasca».

Harker attese finché la ragazza non si fu decisamente avviata, poi la seguì, tenendosi a debita distanza. I due grandi uccelli neri lo seguirono vigili. Attraversarono la folta erba del pianoro in direzione degli alberi. Adesso il cielo aveva tutto il colore del sangue.

Una leggera brezza avvolse la testa della ragazza e prese a giocare coi suoi capelli. Matt Harker vide che quei capelli erano corti e piatti, come petali azzurri.

 

3

 

Fu una lunga camminata, prima di raggiungere la foresta. L'intero altopiano, lassù, sembrava avere una forma a scodella, protetta da alte rupi tutt'intorno. Harker, riandando col pensiero al loro primo insediamento di tanto tempo prima, decise che quel posto era infinitamente migliore. Era quasi la visione che aveva avuto nei suoi sogni febbricitanti: la Terra Promessa. Era come se l'aria tersa e fresca di quell'altopiano gli avesse tolto dei pesi dai polmoni, dal cuore, da tutto il corpo.

Ma anche se quell'aria pulita gli restituiva vigore e giovinezza, non riusciva a compensare del tutto il peso di McLaren. Poco dopo, Harker fu costretto a dirle: «Aspetta», e si sedette, facendo rotolare con delicatezza il corpo di McLaren sull'erba folta. La ragazza si fermò. Tornò indietro di qualche passo e studiò Harker, che stava sbuffando come un cavallo esausto.

Harker sollevò gli occhi su di lei, sogghignando.

«Sono sfinito», le spiegò; «Ho consumato troppe energie per un uomo della mia età. Non puoi chiamare qualcuno che mi aiuti a portarlo?»

Ancora una volta lei lo studiò in silenzio, affascinata e perplessa. La notte stava ormai per chiudersi sopra di loro, era d'una sfumatura indaco, più chiara della notte cupa che tutti opprimeva al livello del mare. Gli occhi della ragazza mostravano una curiosa luminosità nel buio.

«Perché lo fai?» gli chiese.

«Far che cosa?»

«Portare quello».

«Quello», per Harker fu facile intuirlo, era McLaren. D'improvviso, fu gelidamente consapevole dell'abisso che li separava... e che nessuna dose di spiegazioni, per quanto abbondante, sarebbe riuscita a colmare. «È un mio caro amico. È un... Devo farlo».

Lei studiò i suoi pensieri, poi scosse il capo. «Non capisco. È guasto...»

L'immagine, nella sua mente, era una combinazione di «rotto», «finito» e «inutile».

«... portarselo dietro?»

«McLaren non è un "quello". È un uomo come me... un amico. È ferito, e devo aiutarlo».

«Non capisco». La sua scrollata di spalle fu fin troppo eloquente, l'ovvio giudizio che lui era un pazzo, e che non valeva la pena dedicargli altro tempo. La ragazza ricominciò ad avanzare senza prestar più nessuna attenzione agli appelli di Harker, che le chiedeva di aspettarlo. Per forza di cose, Harker si caricò nuovamente del peso di McLaren e la seguì barcollando. Desiderò ardentemente che Sim fosse là, e subito desiderò di non aver pensato a Sim. Si augurò che Sim fosse morto in fretta prima di... prima di che cosa? Oh Dio, è buio e ho paura e il mio stomaco è diventato acqua fredda e quella creatura che trotterella davanti a me, in mezzo a questa foschia azzurra...

Tuttavia, quella creatura era molto bella. Uno splendido, affascinante profilo, uno snello, curvo luccichio fatto d'impalpabile chiaro di luna, il calice d'un fiore esotico contenente il nettare mistico e profumato dell'irreale, l'ignoto, l'inesplorato... Suo malgrado, Harker sentì il sangue pulsargli d'una profonda eccitazione.

Giunsero infine sotto le ombre fragranti degli alberi. La foresta non era un groviglio impraticabile, ma aveva abbondanti radure e crinali coperti di muschio. Non c'era sottobosco, né arbusti, né macchie di felci, ma soltanto distese fiorite. La ragazza si fermò e protese una mano verso l'alto. Un ramo piumato, lassù, fuori della sua portata, si piegò e le sfiorò il viso, la ragazza ne colse un grande germoglio pallido e se l'infilò tra i capelli.

Si voltò e sorrise ad Harker. Questi cominciò a tremare, in parte per la stanchezza, in parte per qualcos'altro.

«Come puoi farlo?» le chiese.

Lei lo fissò perplessa. «Vuoi dire il ramo? Oh, quello!» Rise. Era il primo, vero suono che l'udiva emettere, e gli parve d'essere trapassato da uno spruzzo di mercurio bollente. «Mi basta pensare che mi piacerebbe un fiore... e il fiore viene».

Teletrasporto, psicocinesi... come lo definivano nei libri? Sulla Terra ne sapevano qualcosa, ma la colonia non aveva avuto neppure il tempo di compulsare la sua povera biblioteca. C'era stata qualche setta religiosa che riusciva a far chinare le rose che reggevano in mano. L'antica saggezza, la misteriosa forza dietro i miracoli biblici... niente più che il pensiero, l'infinito potere del pensiero. Molto semplice. Già. Harker si chiese a disagio se la ragazza potesse usarlo anche su di lui. Ma anche lui aveva un proprio cervello. O no?

«Qual è il tuo nome?» le chiese.

Lei produsse un limpido trillo. Harker cercò d'imitarlo fischiando, ma subito ci rinunciò. Una specie di linguaggio tonale, pensò, privo di parole... o almeno, di parole come lui le intendeva. Pareva che lei, la sua gente — qualunque cosa fossero — avessero copiato gli uccelli.

«Ti chiamerò Fiordaliso» le disse. «Sì... Fiordaliso. Ma tu non sai cosa vuol dire».

Lei colse l'immagine nella sua mente e gliela rinviò. Fiori dai petali azzurri che occhieggiavano dalla fruttiera di porcellana di sua madre. La ragazza tornò a ridere, mandò via gli uccelli neri e s'inoltrò tra gli alberi facendogli strada, riempiendo l'aria di trilli come un rigogolo. Altre voci le risposero e poco dopo, correndo come la brezza fra gli alberi, arrivò la sua gente.

Erano tutti come lei. C'erano maschi... esili creature simili a ragazzini... e ragazze come Fiordaliso. Erano molte centinaia, tutti nudi, tutti che ridevano incuriositi, i loro corpi flessuosi che guizzavano come farfalle fra le ombre color indaco. Erano coronati di petali — così li chiamava Harker, anche se non sapeva, in realtà, cosa fossero — di tutti i colori, dallo scarlatto al bianco più puro.

Vi fu un lungo incrociarsi di trilli. A quanto pareva Fiordaliso stava raccontando come aveva trovato Harker e McLaren. Tutta quella folla avanzò lenta attraverso la foresta fino ad arrivare a un vasto spiazzo aperto cosparso di pochi alberi qua e là. Una sorgente formava un laghetto, dal quale usciva un ruscello che si perdeva fra la vegetazione.

Continuava ad arrivare altra gente del piccolo popolo; ora Harker vide finalmente i più giovani: dalle creature più minuscole e sottili, via via attraverso le varie fasi dello sviluppo, erano repliche in minor formato degli adulti. Non c'erano vecchi. Non c'era nessuno che avesse un corpo imperfetto, o ferito. Harker, esausto e sull'orlo di un attacco di febbre, provò un profondo scoramento davanti a tanta fragile bellezza.

Mise giù McLaren accanto alla sorgente. Bevve, ansando come un animale, e si rinfrescò la testa e le spalle. Il popolo della foresta si era disposto in cerchio tutt'intorno ad osservarlo. Adesso erano silenziosi. Harker si sentì rozzo e bestiale, in un certo senso quasi come se avesse ruttato sonoramente in una chiesa.

Si occupò di McLaren. Lo lavò, lo aiutò a bere, e si diede da fare per curargli la gamba ferita. Ma avrebbe avuto bisogno di luce, d'un fuoco.

C'erano foglie secche, lì intorno, e zolle di muschio morto. Ne raccolse abbastanza, fra le rocce intorno alla sorgente, e le ammucchiò. La gente della foresta l'osservava. Harker cominciò a sentirsi innervosito per tutti quegli sguardi luminescenti puntati verso di lui. Le mani presero a tremargli al punto che dovette ricominciare per ben quattro volte con la selce e l'acciarino prima di ottenere una scintilla.

Già quel minuscolo guizzo produsse un'intensa agitazione tra le file silenziose degli astanti. Harker ci soffiò sopra. Le fiamme si levarono, dapprima piccole e pallide, poi presero vigore, crebbero e crepitarono. Harker vide i loro volti all'improvviso sfavillio luminoso, i loro occhi spalancati per il terrore. Uno strillo acuto eruppe dalle loro gole, e poi fuggirono tutti come foglie frusciami, sospinte dal vento.

Harker estrasse il coltello. Un profondo silenzio era calato sulla foresta. C'era silenzio... ma non tranquillità. Harker sentì la pelle accapponarglisi sulla schiena, mentre i capélli gli si rizzarono in testa. Sentì la gola secca. Passò la lama tra le fiamme. McLaren alzò lo sguardo su di lui. Harker gli disse: «Va tutto bene, Rory». E gli vibrò un pugno sulla punta del mento. McLaren si rovesciò all'indietro, immobile. Harker gli afferrò la gamba gonfia, gliela distese, e si mise al lavoro.

Era di nuovo l'alba. Harker giaceva accanto alla sorgente, in mezzo all'erba fresca, le ceneri del fuoco erano grige e morte lì accanto alle chiazze più scure della vegetazione. Si sentiva riposato, i nervi distesi, e sembrava che la paura l'avesse lasciato. L'aria era inebriante come vino.

Si girò sulla schiena. Soffiava un vento forte e vivificante, ricco d'aromi. Gli alberi ondeggiavano vivaci, sembravano quasi urlare di piacere. Harker inspirò profondamente. L'odore, quella sensazione di purezza, di pulizia...

D'improvviso si rese conto che le nubi erano alte, più alte di quanto le avesse mai viste prima d'ora. Il vento le sospingeva tutte d'un lato, e la luce del giorno era luminosa, tanto luminosa che...

Harker balzò in piedi. Il sangue gli tumultuava nelle vene. Avverti un bruciore negli occhi, un intenso pizzichio. Cominciò a correre verso un alto albero, fece un salto aggrappandosi ai rami più bassi, poi prese ad arrampicarsi spericolatamente fino alla cima ondeggiante. La conca della valle si stese sotto di lui, verde, rigogliosa... affascinante. Le grige rocce di granito s'innalzarono intorno ad essa, crescevano sempre più imponenti contro il cielo nella direzione verso la quale il vento soffiava. Erano molto alte ma al di là, molto al di là di esse, torreggiavano montagne colossali.

E su queste montagne, attraverso gli squarci delle nubi sferzate dal vento, si stendeva una coltre nevosa, gelida e bianca, d'una purezza accecante, e mentre Harker aguzzava gli occhi, colse un brillio, così rapido e fuggevole che lo intuì più che altro col cuore... La luce del sole. Campi di neve e, sopra di essi, il sole...

Molto tempo dopo, tornò a calarsi nel silenzio della radura. E restò immobile, gli occhi fissi su ciò che, prima, non aveva fatto in tempo a vedere.

Rory McLaren non c'era più, e non c'erano più neppure gli zaini, col cibo, le corde da scalata, le bende, la selce e l'acciarino. Neppure le corte lance c'erano più. Harker si tastò istintivamente il fianco, e non vi trovò niente, soltanto la carne nuda. Il coltello, perfino il perizoma gli erano stati tolti.

Un corpo snello, delizioso, avanzò fuori dall'ombra degli alberi. Grandi boccioli bianchi spiccavano sui riccioli azzurri che le coronavano la testa. Occhi luminosi fissarono Harker, pieni d'una vibrazione sottile e d'una ironia appena accennata.

Fiordaliso sorrise.

Matt Harker s'incamminò verso Fiordaliso, senza affrettarsi, i muscoli del viso induriti, cancellando ogni espressione. Cercò di mantenere sgombro anche il cervello. «Dov'è l'altro, il mio amico?»

«Nel luogo del termine». Gli indicò con un vago cenno del capo i dirupi intorno al punto dove lui e McLaren erano emersi dalla galleria. Colse l'immagine mentale di qualcosa d'intermedio fra un mucchio di spazzatura e un cimitero, in una sorta di traduzione approssimativa che riuscì a fare nei concetti terrestri. Colse anche una totale noncuranza e anche un po' di fastidio per il tempo perso in una simile sciocchezza.

«L'avete... è ancora vivo?»

«Lo era quando l'abbiamo messo là. Tutto andrà bene, aspetterà fino a quando non si... fermerà. Come tutti».

«Perché è stato spostato? Perché avete...»

«Era brutto». Fiordaliso scrollò le spalle. «In ogni caso era rotto». Protese le braccia in alto e alto il viso al vento. Un brivido deliziato la percorse. Tornò a sorridere ad Harker, in tralice.

Lui cercò di dominare la rabbia, di tenerla nascosta. Si avviò, con volto sempre privo d'espressione, verso i dirupi. Passò accanto a un cespuglio dai fiori gialli e i rami spinosi e flessibili. D'un tratto la pianta si contorse e lo sferzò sul ventre. Harker si arrestò di botto, piegandosi in due. E udì la risata di Fiordaliso.

Quando si raddrizzò, la ragazza era davanti a lui. «È rosso», lei fece, sorpresa, e appoggiò le sue dita sottili e appuntite sui graffi lasciati dalle spine. Pareva eccitata, e affascinata, dal colore e dal tocco del sangue. Le sue dita si mossero, saggiando la forma dei suoi muscoli, la trama della sua pelle e la peluria scura sul suo petto. Le dita tracciarono piccole linee di fuoco lungo il suo collo, la sporgenza delle sue mascelle... gli toccarono i lineamenti, uno ad uno, le palpebre, le nere sopracciglia.

«Cosa sei?» gli bisbigliò con la mente.

«Questo». Harker la cinse, lentamente, con le braccia. La pelle di lei era liscia, e stranamente gelida, sotto le sue mani, facendogli provare un brivido indescrivibile, in parte di piacere, in parte di ripugnanza. Piegò la testa. Gli occhi di lei s'incupirono, laghi di fuoco azzurro, poi Harker trovò le sue labbra. Erano fredde e strane come il resto di lei, cedevoli, come il resto del suo corpo, odoranti di spezie, lo stesso profumo che esalò, con improvvisa, sopraffacente dolcezza, dai suoi petali ricciuti.

Harker colse un movimento tra gli squarci della foresta, un assieparsi di corolle dai vivaci colori. Fiordaliso si tirò indietro. Gli prese la mano e lo condusse via, verso il ruscello e le macchie di felci che lo bordavano. Alzando lo sguardo, Harker vide che i due uccelli neri avevano ripreso a seguirli, alti nel cielo.

«Ma allora in realtà siete piante? Fiori come questi?» Toccò i bianchi boccioli sopra la sua testa.

«Allora in realtà tu sei una bestia? Come le creature pelose e ringhianti che a volte si arrampicano su dal passo?»

Scoppiarono a ridere tutti e due. Il cielo sopra di loro aveva il colore di un vello soffice e perlaceo. Il terreno era tiepido e le felci cedevano elastiche sotto i loro piedi. «Quale passo?» chiese Harker.

«Laggiù». Lei gliel'indicò verso il confine roccioso della valle. «Scende giù fino al mare, credo. Molto tempo fa andavamo anche noi fin laggiù, ma in realtà non era necessario... e le bestie lo rendono pericoloso».

«Davvero», disse Harker, e la baciò nel cavo sotto il mento. «Cosa succede quando vengono le bestie?»

Fiordaliso scoppiò a ridere. Prima che potesse muoversi, Harker si trovò saldamente intrappolato in un groviglio di rampicanti e di robuste fronde di felci, e gli uccelli neri si precipitarono giù stridendo e fecero roteare i loro becchi taglienti a pochi centimetri dal suo viso.

«Ecco cosa succede», disse Fiordaliso. Accarezzò le felci. «I nostri cugini ci capiscono ancora meglio degli uccelli».

Harker giacque a terra, ansante e intriso di sudore, anche dopo essere stato liberato. Alla fine disse: «Quelle creature del lago sotterraneo... sono anch'essi vostri cugini?»

Il pensiero di Fiordaliso, pieno di paura, si scontrò con la sua mente come un paio di mani che cercassero di spingersi affannosamente lontano. «No, non... La leggenda dice che molto, molto tempo fa tutta questa valle era un immenso lago e i nuotatori ci vivevano dentro. Erano d'una specie completamente diversa dalla nostra. Noi siamo venuti dalle alte gole, dove adesso vi sono soltanto rocce spoglie. Questo è stato molto tempo fa. Man mano il lago si ritirava, siamo diventati sempre più numerosi e abbiamo cominciato a scendere verso il basso, alla fine ci fu una battaglia e i nuotatori furono cacciati oltre la cascata, dentro il lago nero. Hanno tentato molte volte di uscire, di tornare alla luce, ma non hanno potuto. Alle volte mandano fuori i loro pensieri verso di noi. Loro...» S'interruppe. «Non voglio più parlare di loro».

«Come potreste combattere contro di loro, se dovessero uscire?» le chiese Harker, sbrigativo. «Soltanto con gli uccelli e le creature che crescono dal suolo?»

Fiordaliso tardò alquanto a rispondere. Poi disse: «Ti farò vedere un modo». Gli appoggiò le mani sugli occhi. Per un attimo ci fu soltanto buio. Poi cominciò a prender forma un'immagine... gente, la gente di Harker, vista come un riflesso su uno specchio opaco e distorto, ma riconoscibile. Si riversarono dentro la valle attraverso una fenditura tra i dirupi, e subito ogni cespuglio, ogni albero, ogni singolo filo d'erba si scatenavano contro di loro. Essi combattevano selvaggiamente coi loro coltelli, riuscendo ad avanzare, ma lentamente. E poi attraverso il pianoro venne avanti una nebbia leggera, ma morbida e compatta.

Si fece più vicina, avanzando per forza propria, sfidando il vento contrario. Harker vide che si trattava d'una infinità di pappi, semi portati da seriche ali. La nube si distese sopra la gente intrappolata tra i cespugli. Era una marea interminabile e lenta che li coprì tutti d'una sottile lanugine. Gli uomini cominciarono a contorcersi e ad urlare per il dolore, in preda a una terribile paura. Si dibattevano, ma non riuscivano a fuggire.

La lanugine bianca cadde giù dai loro corpi, i quali rivelarono adesso di esser coperti da minuscole, innumerevoli punture verdi, attraverso le quali venivano risucchiate le sostanze chimiche dalla carne viva... I semi lì conficcati cominciavano già a crescere.

Il pensiero parlato di Fiordaliso si sovrappose alle immagini: «Ho visto i tuoi pensieri... o almeno alcuni di essi... dal momento in cui sei uscito dalle caverne. Non riesco a capirli, ma ho potuto vedere le nostre terre squarciate fino alla nuda roccia, i nostri alberi abbattuti e ogni creatura abbrutita. Se la tua razza venisse qui, noi dovremmo andarcene. E la valle appartiene a noi».

Il cervello di Matt Harker giacque immobile nell'oscurità del suo cranio, vigile, ritirato in se stesso. «Prima di voi, apparteneva ai nuotatori».

«Non sono riusciti a tenersela. Noi possiamo farlo».

«Perché mi hai salvato, Fiordaliso? Cosa vuoi da me?»

«Da te non veniva nessun pericolo. Eri strano. Volevo giocare con te».

«Mi ami, Fiordaliso?» Il suo dito sfiorò una larga pietra liscia tra le radici delle felci.

«Amore? Cos'è?»

«È il domani e lo ieri. È speranza e felicità e dolore. È la totalità dell'essere perché è disinteressato, la catena che ti lega alla vita e che fa sì che valga la pena viverla. Capisci?»

«No. Io cresco, prendo al suolo e alla luce, gioco con gli altri, con gli uccelli, il vento e i fiori. Quando viene il momento sono matura di semi, e dopo vado lì, nel termine, ad aspettare. È tutto ciò che capisco. È tutto ciò che c'è».

Harker sollevò lo sguardo e guardò nei suoi occhi. Un brivido lo colse. «Non hai anima, Fiordaliso. Ecco la differenza tra noi. Tu vivi... ma non hai anima».

E dopo... non gli fu difficile far ciò che doveva. Farlo in fretta, fare ciò che era la sua unica, debole possibilità di giustificare la morte di Sim. Ciò che Fiordaliso poteva anche aver intravisto nella sua mente, ma contro la quale non poteva difendersi, poiché a lei mancava del tutto la comprensione dell'assassinio.

 

4

 

Gli uccelli neri si scagliarono contro Harker, ma la costrizione che li guidava si spense troppo presto. Le felci e i rampicanti vibrarono convulsi, poi s'immobilizzarono. Gli uccelli neri volarono via con pesanti battiti delle ali. Matt Harker si alzò in piedi. Era probabile che il popolo dei fiori mantenesse un contatto mentale molto intimo, ma forse non avrebbero notato l'assenza di Fiordaliso per un po'. Forse non sbirciavano nei suoi pensieri perché lui era il giocattolo di Fiordaliso. Forse...

Cominciò a correre verso le rupi, verso il punto dov'era il termine. Si tenne quanto più possibile sui tratti aperti, lontano dagli alberi e dai cespugli. Evitò accuratamente di guardare, prima di allontanarsi, ciò che adesso giaceva ai suoi piedi.

Era ormai vicino alla sua destinazione, quando seppe di essere stato individuato. Gli uccelli neri tornarono indietro, sfrecciando verso di lui sulle ali sibilanti. Harker raccolse un ramo secco per respingerli, ma questo gli si sbriciolò tra le mani. Telecinesi. Il potere della mente sulla materia. Una volta Harker aveva letto che si poteva sempre vincere ai dadi, pensando intensamente alla posizione in cui si volevano far cadere. Desiderò poter concepire un fulminatore col pensiero...

Becchi adunchi gli lacerarono le braccia. Si coprì il volto e, afferrato uno degli uccelli per il collo, l'uccise. L'altro urlò, e questa volta Harker non fu altrettanto fortunato. Quand'ebbe infine ucciso anche il secondo, aveva abbondantemente assaggiato i suoi artigli, e aveva le guance incise da solchi sanguinolenti. Riprese a correre.

I cespugli si piegavano di scatto verso di lui mentre passava. Rami spinosi si allungavano. Rampicanti balzavano su come serpenti dall'erba, e ogni filo d'erba puntava come un coltello a trafiggergli i piedi. Ma, ormai aveva raggiunto le rupi: davanti a lui si apriva una distesa brulla, e l'erba e i cespugli mancavano quasi del tutto.

Seppe di esser vicino al termine quando ne sentì l'odore. La fragranza dolciastra dei fiori appassiti, con sotto un acre odore di marcio e di morte. Gridò il nome di McLaren, atterrito all'idea che potesse non esserci nessuna risposta... e quasi si afflosciò per il sollievo quando la risposta vi fu. Scavalcò di corsa alcune rocce franose in direzione di quel suono. Un piccolo rampicante gli attorcigliò intorno a un piede e lo fece cadere. Harker lo strappò, con le radici, dalla fenditura poco profonda da cui sporgeva, e proseguì. Quando si voltò a guardare dietro di sé, vide un sottile velo bianco, una piccola chiazza lontana a mezz'aria, che stava avanzando verso di lui.

Giunse infine al termine.

Era un canyon dalla sezione quadrata, profondo, le pareti a picco, così da assomigliare a un ampio pozzo. In fondo ad esso, i corpi inerti in esso gettati formavano un mucchio spugnoso e secco. Corpi vegetali senza più nessun colore, vizzi e ingrigiti, un'incredibile coacervo in decomposizione.

McLaren giaceva in cima al mucchio, in apparenza illeso. I due zaini erano accanto a lui, con le armi. Sparsi sopra il mucchio, seduti o distesi, che si muovevano appena, c'erano quelli in attesa, come aveva detto Fiordaliso, di fermarsi. Qui c'erano i vecchi, gli sbiaditi e consunti, gli imperfetti e i feriti, gettati in un luogo in cui tali brutture non potevano offendere nessuno. Naturalmente, parevano tutti quasi morti, ormai. Non prestavano nessun attenzione né agli uomini, né ai loro simili. Riuscivano a sopravvivere ancora per un po' soltanto grazie alle pure energie vegetative, allo stesso modo in cui un geranio resta fiorito ancora un po', dopo che il suo stelo è stato reciso.

«Matt», disse McLaren, «oh, Dio, Matt... sono contento di vederti!»

«Stai bene?»

«Sicuro. Anche la mia gamba sta molto meglio. Puoi tirarmi fuori?»

«Lancia quassù quegli zaini».

McLaren obbedi. Anche lui si trovò contagiato dalla febbrile urgenza di Harker, e soprattutto alla vista del sangue che colava giù dal viso dilaniato dell'amico, che faceva presagire qualcosa di brutto. Harker gli spiegò in fretta l'accaduto, mentre tirava fuori una delle corde, usandola subito dopo per tirar fuori McLaren, di peso, dal pozzo. Adesso la nebbia bianca si era fatta vicina... troppo vicina.

«Riesci a camminare?» gli chiese Harker.

McLaren fissò la nube lanuginosa. Harker gli aveva detto cos'era. «Ce la faccio», annuì. «Ce la farei a correre come il demonio».

Harker gli porse la corda. «Vai sul lato opposto del pozzo proprio sul lato opposto, hai capito?» Aiutò McLaren a infilarsi lo zaino. «Tienti sulla roccia spoglia... e stai pronto a tirarmi su con la corda».

McLaren si allontanò. Zoppicava molto e aveva il volto contorto dal dolore. Harker imprecò. Ora la nube era così vicina che riusciva a distinguere i milioni di semi che galleggiavano sulle loro ali seriche, lanugine di cardo guidata dalle menti del popolo dei fiori, giù nella valle. Si affibbiò le cinghie dello zaino e cominciò ad avvolgere bende e ciuffi d'erba morta intorno alla punta d'osso d'una delle lance che aveva recuperato. L'orlo della nube gli era quasi addosso quando fece scoccare una scintilla dentro la torcia improvvisata, per poi balzare dentro al mucchio di creature-fiore morte, nel pozzo.

Sprofondò dentro quella superficie traditrice, lottando per passarvi attraverso, mentre appiccava il fuoco con la torcia. La materia appassita, secca, s'incendiò. Harker continuò ad allargare la cortina di fiamme fino all'opposta parete rocciosa, poi si guardò alle spalle. Le creature morenti non si erano mosse, neppure quando il fuoco le aveva avvolte. Sopra la sua testa, l'orlo della nuvola di semi avvampava crepitando, agitandosi alla cieca sopra il fuoco. Vi fu un pallido lampo di luce, e la nube comparve in uno sbuffo di fumo.

«Rory!» urlò Harker. «Rory!»

Per un lungo minuto rimase là sotto, tossendo, soffocando in mezzo al fumo, sentendo la vampa delle fiamme tutt'intorno, che gli arrostiva la pelle. Poi, quand'era quasi troppo tardi, il volto sudato di McLaren comparve sopra di lui, e la corda scese giù come un serpente. Lingue di fuoco gli lambirono rabbiose la schiena, mentre si arrampicava rapido come una scimmia lungo la parete a picco.

Si allontanarono dal pozzo, salendo ancor più in alto sul terreno roccioso, colpendo di tanto in tanto coi coltelli gli arbusti e i rampicanti che non riuscivano ad evitare. McLaren rabbrividì.

«Ma è impossibile...» esclamò. «Come ci riescono?»

«Sono cugini di sangue. O forse dovrei dire di linfa. Credo che sia più o meno come un collegamento radio: basta trasmettere sulla frequenza giusta. Ecco, fermiamoci qui per un attimo».

McLaren si lasciò cadere al suolo con un sospiro di sollievo. Il sangue filtrava attraverso le bende ben strette, là dove Harker gli aveva inciso il gonfiore prodotto dalla ferita. Harker tornò a guardarsi indietro, verso la valle.

Il popolo dei fiori si era sparpagliato per un ampio tratto, in un ampio schieramento curvo, le vivide teste multicolori si stagliavano con chiarezza contro il verde del pianoro. Harker immaginò che avrebbero tenuto il passo sotto stretta sorveglianza. Immaginò che avessero saputo tutto quello che gli era passato per la mente, allo stesso modo in cui l'aveva saputo Fiordaliso. Una sorta di comunismo, una mente per tutti e tutti per una mente. Si rese subito conto che, anche senza la menomazione di McLaren, non ce l'avrebbero mai fatta ad arrivare al passo. Neppure un sorcio ce l'avrebbe fatta.

Harker si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto prima che arrivasse la prossima nube di semi.

«Cosa possiamo fare, Matt? C'è qualche modo...» McLaren non stava pensando a se stesso. Stava guardando la valle allo stesso modo in cui Lucifero avrebbe occhieggiato con bramosia verso il Paradiso, e stava pensando a Viki... non a Viki soltanto, ma a Viki come simbolo di tremilaottocento nomadi umani sulla superficie di Venere.

«Non so», Harker rispose. «Il passo è da escludere, e la galleria del fiume anche... Ehi! Non ricordi quando abbiamo combattuto contro quelle bestiacce lì al fiume, e tu quasi hai provocato un crollo scagliando pezzi di roccia? Là c'era una faglia, proprio sopra il bordo del lago. Una lunga fessura causata da un terremoto. Se soltanto potessimo arrivarci da sopra e farla precipitar giù...»

Ci volle un minuto prima che McLaren capisse. Sgranò gli occhi. «Una frana che sbarrasse il lago...»

«Se il livello s'innalzasse abbastanza, i nuotatori potrebbero uscir fuori». Harker fissò gli occhi brucianti sulle teste oscillanti del popolo dei fiori, là in fondo alla valle.

«Ma, Matt, se la valle verrà allagata e quelle bestiacce prenderanno il sopravvento, che vantaggio ne trarranno i nostri?»

«Non ci sarà poi una gran frana, non credo. La roccia è solida su entrambi i lati della faglia. E, in ogni caso, il peso della gran massa di acqua trattenuta quassù spingerebbe via qualunque cosa, perfino una diga di cemento armato, nel giro d'un paio di settimane». Harker studiò con attenzione il profilo della valle. «Vedi laggiù com'è il pendio? Anche se la frana non venisse spazzata via dall'acqua, un po' di scavi basterebbero a scaricare l'inondazione giù per il passo. Non faremmo altro che creare un nuovo fiume... anzi, una nuova cascata».

«Forse», annui McLaren. «Anzi, sì, immagino di si. Ma rimarranno pur sempre i nuotatori, i pianni. Non credo che sarebbero molto più disposti di queste maledette creature-fiori a rinunciare a questa terra». Il tono della sua voce diceva chiaramente che avrebbe preferito di gran lunga combattere contro la gente di Fiordaliso, piuttosto che con le creature della caverna.

La bocca di Harker si torse in un lento sogghigno. «Rory, i nuotatori sono creature acquatiche. Anfibie. Inoltre hanno vissuto sottoterra nella più totale oscurità, Dio sa per quanto tempo. Sai bene cosa succede a un verme per pescatori quando lo tiri fuori alla luce. Sai cosa succede a un fungo che cresce al buio». Si passò le dita, quasi con reverenza, sulla pelle. «Hai notato niente su di te, Rory? Oppure sei stato troppo occupato?»

McLaren lo fissò. Si sfregò la pelle e sussultò; se la sfregò di nuovo, notando come sulla sua pelle si formassero dei lividi bianchi che sparivano subito.

«Il sole mi ha scottato», esclamò, pieno di meraviglia. «Mio Dio, il sole mi ha scottato!»

Harker si alzò in piedi: «Andiamo a dare un'occhiata». Là sotto le teste dei fiori erano in preda a una viva agitazione. «Non gli piace questo pensiero, Rory. Forse si può fare... e loro lo sanno»,

McLaren si alzò, appoggiandosi a una delle corte lance come a un bastone. «Matt, non ce lo lasceranno fare».

Harker corrugò la fronte. «Fiordaliso ha detto che c'erano altri modi oltre ai semi...» Si girò di scatto. «Non serve a niente star qui a preoccuparsi».

Ripresero l'arrampicata, molto lenta, a causa di McLaren. Harker cercò di calcolare il punto in cui si trovavano, rispetto alla caverna sottostante. Il fiume costituiva una buona traccia. Qui le rocce erano quasi prive di vegetazione, il che era una benedizione. Tornò a guardare, ma non vide niente di minaccioso che stesse arrivando dalla valle. Adesso il popolo dei fiori era ridotto a lontani punti di colore, immobili.

D'un tratto la formazione rocciosa cambiò. Antichi terremoti avevano lasciato cicatrici in forma di strati contorti, grandi lastre di granito inclinate, in precario equilibrio come danzatori, e fessure che sprofondavano nel buio.

Harker si fermò. «Ecco, ci siamo. Ascolta, Rory. Voglio che tu vada lassù, in alto, fuori dall'area pericolosa...»

«Matt, io...»

«Chiudi il becco. Uno di noi deve restar vivo per informare le navi, non appena sarà riuscito a uscir fuori dalla valle. Non c'è molta fretta, e ce la farai ad arrivare in tre... o quattro giorni. Tu...»

«Ma perché io? Tu sei molto più bravo di me, qui in montagna...»

«Tu sei sposato», l'interruppe Matt, brusco. «Basterà uno soltanto di noi a spinger giù un paio di quei grossi lastroni. Praticamente, sono lì pronti a cader giù sotto il loro stesso peso. Forse non accadrà nulla. Forse ne uscirò vivo. Ma sarebbe davvero sciocco se corressimo tutti e due il rischio, non trovi?»

«Sì. Ma, Matt...»

«Ascolta, figliolo». La voce di Harker si era fatta stranamente gentile. «So quello che sto facendo. Porta i miei saluti a Viki e...»

S'interruppe con un acuto grido di dolore. Abbassò gli occhi, incredulo, e vide il proprio corpo coperto da tante esitanti fiammelle, che guizzavano, si spegnevano, ma lasciavano le loro rosse impronte.

McLaren stava sperimentando la stessa cosa.

Si guardarono negli occhi. Un terrore impotente afferrò Harker alla gola. Di nuovo la telecinesi. Il popolo dei fiori ora li aggrediva con la loro stessa arma. Avevano visto il fuoco e ciò che faceva, e stavano copiando il processo nella loro mente, concentrando tutti insieme l'intera forza mentale della colonia sui due umani. Harker capiva perfino perché la stavano concentrando sulla pelle: avevano colto il pensiero della bruciatura solare, e l'avevano applicato alla lettera.

Il fuoco. Combustione spontanea. Una reazione semplice e facile, se si conosceva il trucco. C'era qualcosa a proposito d'un roveto che bruciava...

L'attacco si ripeté, e con più forza. Adesso il popolo dei fiori stava prendendoci mano. Faceva male. Oh, Dio, se faceva male! McLaren urlò. Il suo perizoma e le bende cominciavano a fumare.

Cosa fare? pensò Harker, frenetico, presto, dimmi cosa fare...

Il popolo dei fiori riusciva a mettersi a fuoco sugli umani attraverso la loro mente cosciente. Forse non potevano arrivare con altrettanta facilità al subconscio, ai suoi simboli, alle sue immagini troppo vaghe. Forse, se Rory non avesse più pensato secondo un pensiero cosciente, non avrebbero più potuto concentrarsi su di lui...

Un'altra vampata di dolore bruciante, straziante. Fra un attimo avrebbero raggiunto una mortale efficacia, rinnovando i loro attacchi fino a quando...

Senza preavviso, Harker colpi con violenza McLaren alla mascella, e lo trascinò più in alto, là dove la roccia era solida, compatta. Fece tutto questo con rapidità ed energia stupefacenti. Non c'era nessun bisogno che salvasse se stesso. Non avrebbe avuto bisogno di se stesso ancor per molto.

Si allontanò più o meno d'un trentina di metri, sempre con gli occhi fissi su McLaren. Un terzo attacco lo colpi: si sentì stordito e nauseato, e quasi cadde al suolo. Rory McLaren, questa volta, non era stato toccato.

Harker sorrise. Si girò e tornò indietro di corsa verso il punto franoso in mezzo ai dirupi. Una parte del suo pensiero cosciente si era concentrato su quell'idea con tale intensità che il suo corpo gli obbedì automaticamente, senza fermarsi neppure quando le fiamme investirono ancora, e ancora, la sua pelle, ravvivandosi, crescendo, rafforzandosi sempre più man mano le energie mentali del popolo di Fiordaliso si fondevano insieme sempre meglio, in forma sempre più completa. Abbatté un tentennante colosso di pietra, e l'urto ne smosse un altro. Harker ne raggiunse barcollando un terzo, appoggiato su un letto scivoloso di scisto, spinse con tutte le sue forze e anche di più, e anch'esso crollò con un fragore di tuono.

Harker cadde. L'universo si dissolse in un caos ruggente, al di là d'un vivido velo di fiamma e all'acre odore di carne bruciata. A quel punto, una cosa soltanto era chiara nella mente di Harker, un'immagine prodotta dalla seconda porzione della sua coscienza, collegata alla prima e perfino più forte di questa.

L'immagine che portò con sé nella morte era un'alta montagna incappucciata di candida neve che risplendeva, abbacinante, al sole.

 

Era notte. Rory McLaren giaceva prono su una sporgenza sopra la valle. Sotto di lui, la valle scompariva in un'immensa distesa d'ombra color indaco, ma c'era un nuovo, lontano fragore: un rabbioso, fremente turbinio dell'acqua.

E c'era anche nuova vita. Cavalcava la cresta delle acque inondanti, ardendo dorata nerazzurro cupo della notte, risplendenti giganti che ritornavano, vendicativi, al loro antico luogo d'origine. Grandi chiazze di avvampante fosforescenza, dalla sfumatura di gioielli, punteggiavano le acque: i fiori cacciatori, scatenati all'inseguimento delle prede. E fra essi, nelle mille evoluzioni d'un gioco mortale, guizzavano i piccoli dei nuotatori. McLaren contemplò la caccia al popolo della foresta. Per tutta la notte guardò, tremando per la paura, mentre i titani dorati riscuotevano il pagamento delle molte epoche trascorse nel buio. All'alba era tutto finito. E poi, durante il giorno successivo, vide morire i nuotatori.

Il fiume, ripiegatosi su se stesso, gl'impediva di far ritorno alle caverne. E l'intensa, vivida luce esterna li abbatteva. Dapprima i nuotatori si rivolsero ad essa, salutandola con patetica gioia. Poi si resero conto...

McLaren guardò altrove. Aspettò, riposando, fino a quando, come Harker aveva predetto, la barriera rocciosa fu spazzata via dal tremento peso dell'acqua accumulata, e il grande lago che aveva invaso la valle tornò a vuotarsi, e il fiume riprese a scorrere normalmente. Quando McLaren raggiunse il passo tra le rocce, la valle già si stava prosciugando.

McLaren alzò lo sguardo verso le montagne e respirò il vento fresco e salubre, e provò una grande vergogna e umiltà per trovarsi lì, a far questo.

Guardò verso la caverna, dove Sim era morto, e le rupi sovrastanti, che avevano sepolto i resti di Matt Harker. Gli parve di dover dire qualcosa, ma non gli vennero le parole, il suo petto era così gonfio che riusciva appena a respirare. Si voltò, e discese in silenzio il passo roccioso verso il Mare degli Opali Mattutini e i tremilaottocento nomadi che avevano trovato una casa.

 

Nelle tue mani

Into Thy Hands

di Lester del Rey

Astounding Science Fiction, agosto

 

Lester del Rey è un veterano di questa serie di antologie («The Day is Done», 1939; «Dark Mission», 1940; «Hereafter, Inc., 1941; «The Wings of Night», e «Nerves», 1942; «Kindness» 1944), ed è uno dei primi autori di fantascienza che abbiano pubblicato una raccolta di propri racconti in edizione rilegata, l'ormai raro And Sole Were Human (Prime Press, 1948). Ha servito la fantascienza praticamente in ogni possibile veste: direttore di rivista, curatore di collana, recensore e autore, un vivido esempio d'incredibile sovrapposizione delle diverse funzioni che caratterizzano questo nostro genere letterario.

Malgrado fosse in chiara concorrenza con uno dei curatori di queste antologie, una delle sue specialità erano eccellenti storie di robot; «Nelle tue mani» è una delle sue opere migliori.

 

(Ho scritto in una delle mie precedenti introduzioni che, secondo l'opinione di Cliff Simak, Fritz Leiber era un autore «sottoapprezzato». La mia personale sensazione è che anche Lester lo sia. È uno scrittore straordinario, sempre chiaro e interessante, qualunque cosa faccia. Sia che scriva una storia di fantascienza, una eulogia o un necrologio, ci sono sempre delle vivide intuizioni nelle sue parole che non credo potreste trovare da nessun'altra parte.

Ascolto sempre con la massima attenzione ciò che dice Lester, poiché so che incapperò certamente in qualche vivida favilla che potrò assimilare e sfruttare come parto del mio stesso pensiero. A Lester non importa; c'è grande abbondanza di faville là, nel suo cervello, donde queste sono sprizzate.

Uno dei miei personaggi è modellato su Lester. Si tratta di Emmanuel Rubin, della mia serie del mistero riguardante i «vedovi neri». Lester nega qualunque somiglianza, ma io posso provarla. In quelle storie, Manny Rubin è sempre impegnato nelle più svariate controversie e, non importa quanto io mi sforzi perché succeda il contrario, lui riesce a spuntarla in ogni discussione. Se questo non è Lester, allora niente lo è. I.A.)

 

Simon Ames era vecchio, e il suo volto era amaro come poteva esserlo soltanto quello d'un idealista incallito. Per un attimo uno strano miscuglio d'emozioni l'attraversò mentre guardava gli operai intenti a versare cemento per riempire la piccola apertura nella struttura a forma di cupola, ma i suoi occhi tornarono subito a fissare il robot che si scorgeva all'interno.

«L'ultimo Ames, il Modello Dieci», disse con voce mesta a suo figlio. «E perfino in questo non ho potuto inserire una serie completa di bobine mnemoniche! Qui, ci sono soltanto le scienze fisiche; nell'altra forma maschile, le scienze biologiche, e quelle umanistiche nella versione femminile. Ho dovuto ripiegare sui libri e su una serie completa di strumenti e congegni, per coprire il resto. Siamo ormai così totalmente concentrati sui robot-soldati, che non c'è più tempo, e neanche mezzi, per qualcosa di più pacifico e costruttivo... Dan, non c'è proprio più nessun modo di evitare la guerra?»

Il giovane capitano delle Squadre Lanciamissili scrollò le spalle, mentre la sua bocca si storse in una smorfia d'amarezza: «Nessuno, papà. Hanno nutrito i popoli con le glorie della carneficina e del saccheggio per tanto tempo, che adesso devono a tutti i costi trovare un pretesto per usare le loro orde di guerrieri-robot».